22.12.08

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Giovedì 11 dicembre 2008
I maestri liberali non hanno tradito
di Alberto Mingardi
Caro direttore, a differenza di Vittorio Macioce, non credo che i «maestri liberali» si siano nascosti. Mi preoccupano piuttosto gli allievi. Mi spiego.
Nel suo j’accuse, Macioce mescola tre piani di analisi che sono sostanzialmente diversi. In primo luogo, considera criticamente l’incapacità di organizzazione dei liberisti italiani, che immagina - in ossequio allo stereotipo - pochi e malmessi. In seconda battuta, s’interroga sull’orizzonte di patente irrilevanza in cui sembrano essere precipitate idee che solo ieri, per quanto incapsulate in una nicchia, erano depositarie di un grande avvenire. Alla fine, fa due più due e legge la debolezza nel liberismo, in una scarsa comprensione del suo retroterra morale, più che di «efficienza». La libertà non può valere solo quando «funziona». Altrimenti basta un sabotaggio, per convincerci a cambiare strada. Punto primo. L’organizzazione. Quella dei liberisti non è solo l’incapacità di parlare con una voce sola - presumibilmente dovuta al loro individualismo congenito. Per anni, e ancora oggi, è il rosolarsi compiaciuti in uno stato di minorità. È una caratteristica tipica di tutti i movimenti che hanno poche risorse e poca visibilità. Mi ignorano dunque sono. Il vittimismo di Vittorio Macioce non sfugge alla regola.
Sorpresa: il cielo è un poco più blu. Basta andare in libreria. Hayek non lo confondono più con un autore di gialli, persino Bastiat o Rothbard sono nomi relativamente noti. Se c’è offerta, almeno un po’ di domanda ci deve essere. E questa è una differenza abissale con l’Italia degli anni Sessanta e Settanta, quella che vedeva Bruno Leoni rinunciare a tradurre il suo capolavoro, e Sergio Ricossa «impegnato a dimettersi» da istituzioni e giornali per cui era troppo di destra.
Non siamo tuttavia nemmeno in un’Italia che abbia fatto davvero un bagno di liberismo. E vengo al secondo punto.
Se c’è una cosa che era evidente ieri e che è doppiamente evidente oggi, è che da noi è mancato un leader che, come la signora Thatcher, sventolasse The Constitution of Liberty di Friedrich von Hayek per dire: questo è quello in cui crediamo. È un dato di fatto, non una colpa. Rileggete la storia della seconda repubblica. Chi le ha fatte, le privatizzazioni? Paradossalmente la sinistra, non Berlusconi. Il partito liberale di massa ha variamente reagito al passaggio in mani private dei resti dell’Iri, ai tentativi di liberalizzazione del commercio, all’attacco agli ordini professionali e alle medicine al supermercato. Di una sola campagna liberista aveva il monopolio. Per inciso, la più importante: quella per l’abbassamento della pressione fiscale. Ma se le tasse in Italia scendessero davvero, su quale promessa la destra potrebbe rivincere le elezioni?
In queste condizioni, possiamo stupirci che qualcuno legga la recessione incipiente quasi con masochistico compiacimento? È Schadenfreude («piacere provato dalla sfortuna dell’altro», ndr). Avendo masticato amaro per gli anni del Washington Consensus e della globalizzazione rampante, a buona parte della nostra intellighenzia non è parso vero che il capitalismo fosse finalmente lì, dove doveva stare dai loro vent’anni: sul precipizio di una terribile crisi. Hanno sbagliato, i nostri «maestri liberali»?
No, hanno fatto il loro dovere, predicando coi mezzi che avevano e le parole che sapevano usare. Sono gli allievi, che dovrebbero portare la fiaccola alla stazione successiva. Calare le idee nel reale, trasformarle in proposte, sminuzzarle in messaggi comprensibili alla sciura Maria. Il liberismo è finalmente arrivato in libreria, ma ora deve uscirne.
Eccoci al terzo punto. Abbiamo pensato che questo lavoro lo dovessero fare gli economisti. Gli economisti italiani sono bravissimi. La loro diaspora ha arricchito le università di tutto il mondo. E hanno per le mani l’arte oracolare dei tempi nostri. Però stavolta non hanno tenuto botta. Questa crisi è la loro. È passato il cigno nero, e politiche profondamente sbagliate ci hanno presentato il conto tutte assieme. Certi raffinatissimi modelli matematici hanno vacillato. Ma se gli economisti sentissero quel «tabù dello Stato», quell’istintiva diffidenza rispetto alla discesa in campo del pubblico che è poi ciò che distingue chi ha cuore la libertà da chi può farne legittimamente a meno, non si sarebbero gettati a pesce su ricette del passato, in passato spettacolarmente fallimentari, nell’isteria di salvare il Titanic a colpi di spugna. L’umiltà epistemica, che del liberalismo è uno dei tratti salienti. Il senso del limite, innanzi all’inaspettato. L’incapacità di sterminati eserciti di regolatori di predire il futuro. Questo ci insegna la crisi.
E tale insegnamento ci sarebbe evidente, se avessimo occhi buoni. Abbiamo lo sguardo appannato perché a furia di sentire frottole sul mercato, quelle abbiamo imparato. Così, se un operatore fallisce, o quando i prezzi scendono, è il sistema che è marcio: mentre invece esso si sta, dolorosamente, aggiustando. Stavolta i chierici che hanno tradito sono gli allievi di Adam Smith. Per spirito di corpo. È dai loro ranghi che vengono i regolatori del mondo.
Su un punto, Vittorio Macioce ha ragione. Il mercato non è giusto perché serve, ma serve perché è giusto. Perché l’insieme di libertà e tabù che costituisce l’architettura fragile del sistema della libera impresa, è l’unica cornice in cui possano fiorire la creatività, la voglia di fare, il bisogno di realizzarsi delle persone. L’efficienza allocativa è un corollario, non un presupposto. Parafrasando Franklin, chi è pronto a rinunciare alla libertà per comprarsi briciole di benessere sociale, non merita né l’una né l’altro. E infatti né l’una né l’altro avrà.
Il Giornale, lunedì 8 dicembre 2008
Maestri liberali battete un colpo
di Vittorio Macioce

Cari maestri, dove vi siete nascosti? Questo Paese ha nostalgia del Novecento e c’è una gran voglia di «impiccare» i liberali. È la vendetta di tutti gli orfani delle ideologie. Un amico qualche giorno fa raccontava lo strano destino di Von Hayek. È stato indicato come monatto della crisi da vivo e da morto. Nel 1929 fu Rostow a dire: tutta colpa di Hayek e di Mises. Quest’anno Samuelson ha puntato l’indice su Friedman e, tanto per non sbagliare, e ancora su di lui, il viennese maledetto. Quando le cose vanno male certa gente sa sempre dove bussare. Ma non è solo colpa loro. Un po’ i liberali se la cercano. Quando c’è da fare muro, da sostenere la forza di un’idea, loro si rifugiano in ordine sparso, ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi, come direbbe Vasco Rossi. Allora, dite, in quale convento siete finiti? Antiseri è quasi un padre, eppure di questi tempi è così disilluso e avvilito che fatica a parlare. Ricossa vive di arte, musica, bellezza e solitudine. Pera dialoga solo con Dio. Martino sogna di fare il suo mestiere, ma il dicastero dell’economia era out con il bel tempo, figurati ora che c’è crisi. Quagliariello è un po’ più vecchio e indossa la toga dei senatori. Panebianco fa prediche inutili sul Corsera e si consola leggendo ancora Einaudi. Ideazione, luogo d’incontro degli ultimi liberali, vive solo on line. Tutti quanti sanno che la cultura liberale di massa è una favola a cui credono solo i piccoli imprenditori. Loro, almeno, sono rimasti sul fronte a combattere. Non c’è un giornale, una televisione, una rivista, un partito che sventoli la bandiera dell’orgoglio liberale. È questa la realtà, a destra come a sinistra. C’è qualche fondazione, come l’istituto Bruno Leoni e un paio di case editrici. Ma è una minoranza di simpatici incoscienti. La rivoluzione liberale è finita. Anzi, non è mai davvero iniziata.
Era il 1989 e quella data ora sembra quasi inutile. Non è colpa della storia, quella non si è fermata. È il silenzio di certe idee che preoccupa. Non serve girarci intorno. Quasi vent’anni dopo, come in un brutto romanzo di Dumas, possiamo dire che i liberali sono rimasti ancora una volta soli, quattro gatti e neppure una cabina telefonica, anche quelle sono scomparse. Tutti parlano della crisi, di questa sorta di nuovo ’29 che ci sta addosso, sulla pelle, come una sciagura, come una profezia, come qualcosa di reale che ti sbriciola le tasche. Dicono che la colpa è del capitalismo. Dicono che il mercato è senza cuore e senza morale. Meglio morire democristiani o comunisti. Meglio lo Stato, che scava buche e poi le riempie, che spende e spande. Dicono tutto questo e puzzano di nostalgia.
Voi, invece, zitti. Alla fine degli anni ’80 ancora insegnavate all’università. Eravate pochi. Quando in Italia si regalavano pensioni e Berlinguer alzava il muro della questione morale, voi raccontavate a un po’ di allievi cos’era la libertà. Vi ricordate? Von Mises e Von Hayek, Popper e Tocqueville, Einaudi e Rosmini, e poi perfino Rothbard, lì dove lo Stato diventa niente, un nemico da abbattere. Sì, eravate quasi anarchici. Il fascino del liberalismo è nella sua etica. Il liberalismo crede nell’uomo, nella voglia di rischiare, di elevarsi, di fare sempre un passo in più oltre la miseria dell’anima, oltre la mediocrità. Il liberalismo crede nella libertà, quella dell’individuo. Non crede a chi promette facile paradisi in terra. Non crede a chi parla di masse, classi, fedi, razze, stati, nazioni. Queste cose grandi sono un Leviatano che ti schiaccia, potenze metafisiche che strappano all’individuo i suoi diritti naturali. Sono il grande inganno del Novecento. Ecco, il liberalismo era una via di fuga contro le facili utopie, quelle a cui si aggrappa la gente quando ha paura. Era un modo per dire all’uomo, credi in te stesso. Scegli e giocati la vita. E soprattutto difendi la tua libertà, e quella di tutti i singoli individui, contro Dio e la ragione.
C’è stato un momento in cui la coccarda liberale era la parola d’ordine per il futuro. Il popolo degli ex si era riciclato. Tutti liberali, tutti a parlare di mercato e libertà. Tutti in fuga dal Novecento. Liberali in camicia nera, liberali in cachemire, liberali atei e devoti, liberali con il cilicio, liberali con la foto di Berlinguer sulla scrivania, liberali con la t-shirt del Che, liberali con l’edizione consumata del libretto rosso di Mao, liberali con il garofano, liberali con una lista di clientele grande come una provincia, liberali alle partecipazioni statali, liberali con lo scudo crociato, la falce e martello, la margherita, il sol dell’avvenire, il saluto romano, l’edera, il compasso, i santini da baciare e da bruciare, la maglietta della Ddr del 1974, i rubli sovietici in busta paga, le scarpe nere della Cia. Alcuni, liberali con tutte queste cose insieme. Quest’orgia è durata una decina d’anni.
Ecco, il liberalismo è stata una moda di stagione. Gli orfani del Novecento hanno schiumato rabbia sorda e muta. Se c’è una cosa che post-fascisti, post-comunisti e post-democristiani odiano è il liberalismo. Un odio assoluto e totalitario. È questa la verità, cari maestri. Tutti questi odiano il liberalismo perché disprezzano l’uomo. Rileggetevi il monologo del Santo Inquisitore dei Fratelli Karamazov, quando dice: gli uomini non vogliono la libertà, ma il pane. La libertà, rimprovera il vecchio al Cristo muto, fa paura. Lui, l’inquisitore, è tornato. Voi fatevi sentire.

2.12.08

Il Riformista, martedì 2 dicembre 2008
a Chiamparino
Il duro niet della Lega
di Alessandro Da Rold

Mentre Walter Veltroni, in questi giorni a Madrid per il consiglio del Partito Socialista Europeo, si dice disponibile al Pd del nord («Sono assolutamente aperto perché ritengo che un coordinamento del nord possa essere utile») e Massimo D'Alema lo boccia («Esiste solo sui giornali»), in loco si discute animatamente sulla vecchia ma sempre attuale questione quella del rapporto tra il centrosinistra e le regioni settentrionali.
D'attualità in territori come il lombardo veneto, dove il centrosinistra registra sconfitte umilianti da più di quindici anni. Luoghi in cui la Lega Nord è il partito più vecchio, radicato, e ha ormai capito come cogliere (si vedano le ultime elezioni) la maggior parte dell'elettorato popolare e operaio. Se ne parlò l'anno scorso di Pd del nord, prima del discorso di Veltroni a Torino. «Poi al solito tutto è sfumato», hanno sottolineato spesso diversi commentatori lombardi del centrosinistra. Ora il segretario regionale Maurizio Martina confida in un rilancio. «Il confronto sul Partito Democratico al Nord non può finire ancora in un nulla di fatto come è spesso accaduto in passato - dice Martina -. Il Coordinamento delle Regioni del Nord può essere un laboratorio aperto di idee con cui incalzare la destra alla luce della fragilità delle sue risposte. Di certo sarà un lavoro utile al progetto nazionale dei Democratici. Se riusciremo a decretare l'avvio di questo progetto avremo fatto piu' di quanto non si è mosso in dieci anni di discussioni politologiche sul centrosinistra al nord». E se Sergio Cofferati definisce «sconcertante» l'apertura di Chiamparino alla Lega Nord, il Carroccio fa sapere di non avere bisogno di nessuno. «La Lega è forte - spiega il ministro dell'Interno Roberto Maroni - aumenta nei consensi, dunque non ha bisogno di nessuno, men che meno di un partito che non esiste». Pure nelle regioni settentrionali, però, esponenti del centrosinistra si definiscono scettici. E' il caso di Enrico Farinone, deputato del Pd eletto in Lombardia che chiede «più settentrione nel Pd, piuttosto che un Pd del nord». Infine il lombardo Pierluigi Mantini, deputato del Pd, proveniente dai Dl, chiede la testa del sindaco torinese: «Gli consiglio le dimissioni dal suo ruolo nel governo-ombra per evitare imbarazzanti e seri equivoci e per meglio condurre una legittima battaglia politica nel partito».
Il Riformista, martedì 2 dicembre 2008
Neosocialismo caritatevole. Il partito di Chiamparino
di Linda Lanzillotta

Quale rapporto deve esistere tra politica, istituzioni e poteri economici; e quale ruolo può avere il Partito democratico del Nord? Due temi essenziali affrontati da Chiamparino nell' intervista domenicale di Lucia Annunziata con tesi che meritano una discussione.
Il sindaco di Torino ha spiegato come il suo Comune sia "azionista" di riferimento della Compagnia di San Paolo (con buona pace della natura privatistica delle fondazioni bancarie, sancita dalla giurisprudenza costituzionale e dell'autonomia delle banche partecipate voluta dalla legge!), che la fusione tra San Paolo e Banca Intesa è stata da lui benedetta, ma che il piano industriale della nuova Banca deve essere conforme agli interessi della città di Torino (evidentemente anche quando questi non coincidessero con quelli del restante 91,4 per cento degli azionisti) e che dunque è normale che, anche se indirettamente, vi sia un'influenza del sindaco sulle strategie e sugli assetti manageriali della Banca. Ha inoltre anticipato che il dottor Iozzo, importante banchiere che rientrerà con ruoli di responsabilità nel gruppo San Paolo Intesa, andrà anche a presiedere una delle tante società del Comune di Torino che dovrà gestire operazioni finanziare e di valorizzazione immobiliare. E alla Annunziata che obiettava che forse, in questo modo, il sindaco ha un po' troppo le mani in pasta, ha replicato che le sue mani sono pulite (cosa di cui nessuno ovviamente dubita) e che gli effetti finanziari ed economici che il Comune ricaverà da tutte queste operazioni andranno a beneficio esclusivo dei cittadini torinesi.
Nessun dubbio sulla buona fede di Chiamparino. Ma siamo sicuri che il sistema di integrazione verticale tra politica, istituzioni, sistema bancario e soggetti economici che lui ci propone come chiave per lo sviluppo territoriale sia quello che corrisponde al progetto di modernizzazione che il Pd ha in mente? O questo modello contiene un'idea dirigistica dell'economia, un ruolo paternalistico dei poteri pubblici nei confronti degli attori economici; e implica una pervasività e forme di collateralismo tra politica ed economia, incompatibili con un'economia di mercato fondata su sistemi pubblici di regolazione e di controllo la cui forza e incisività dipende dalla loro assoluta autonomia?
E ancora: un modello di tal genere, aldilà delle qualità morali e della intelligenza degli uomini che pro tempore ricoprono ruoli istituzionali, non contiene in sé i germi di possibili drammatiche degenerazioni come quelle cui stiamo assistendo in molte amministrazioni locali governate anche dal centrosinistra? E non è proprio la distinzione e reciproca autonomia tra politica e istituzioni da una parte, e banche e imprese dall'altra, una delle idee fondanti del nuovo Pd e condizione per realizzare veri e profondi processi di liberalizzazione dell'economia e della società? Processi nei quali la responsabilità sociale dell'impresa e la finalizzazione dell'attività economica è rimessa alle autonome scelte degli operatori dentro un quadro chiaro di regolazione pubblica. Mentre il ruolo del pubblico sta nella creazione dei beni pubblici necessari alla competitività del sistema (pubblica amministrazione, infrastrutture, formazione, ricerca, reti).
Il modello di neosocialismo territoriale caritatevole proposto da Chiamparino sembra in fondo abbastanza vicino all'idea che, sull'altro fronte, ispira l'azione del Tremonti antimercatista, non a caso tanto amato dalla Lega. C'è quasi uno stesso modo di parlare alle società del Nord. Ma allora si tratta di capire se il Partito del Nord che Chiamparino ha in mente propone a questi territori modelli economici aperti, competitivi, attrattivi per nuovi soggetti economici, o sistemi chiusi nel territorio, verticalmente integrati e difficilmente penetrabili da attori economici che non siano cooptati dalla politica locale. Ancor prima che di alleanze e di candidature, sarebbe allora utile discutere di questo; e anche del fatto che una politica del Nord non può prescindere da una politica nazionale. E innanzi tutto da una politica per il Sud.Perché onestà intellettuale e politica vuole che si dica con chiarezza che la battaglia per il federalismo si vince al Nord ma si combatte al Sud: solo un nuovo modello di sviluppo per il Sud non più basato sulla spesa pubblica, insieme a un radicale rinnovamento della classe dirigente e del ceto politico meridionale, possono rendere concreta e realistica quella rivoluzione che sarà il passaggio dalla spesa storica ai costi standard. Diversamente il federalismo non potrebbe che risolversi in un disegno di separazione dei rispettivi destini. Ecco perché io credo che un Pd del Nord potrà essere credibile e competitivo, ma non subalterno alla Lega, certo esprimendo forti leadership del territorio, ma innanzitutto proponendo una visione nazionale innovativa e segnata da forte discontinuità culturale e politica.
La Stampa, sabato 22 novembre 2008
LE SPINE DI VELTRONI QUESTIONE SETTENTRIONALE
Un leader per il Pd del Nord
Il sindaco di Torino: dobbiamo organizzarci autonomamente da Roma
Intervista a Sergio Chiamparino

di Luigi La Spina

Il partito democratico è in pieno marasma. La sorda guerra di correnti intorno al solito dualismo Veltroni-D'Alema è esplosa clamorosamente sul «caso Villari». Ma anche la collocazione nel Parlamento europeo ha riacceso le polveri tra la componente cattolica e quella postcomunista. Di fronte al rischio concreto della dissoluzione di un progetto che, a sinistra, aveva sollevato molte speranze, alcuni pensano che solo un congresso possa far superare questa crisi.

Domandiamo, allora, al ministro ombra per le riforme istituzionali, il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, se anche lui ritiene che questa proposta sia utile a superare i contrasti.
«Non credo. Servirebbe solo a fotografare la situazione esistente e, finito il congresso, tutto continuerebbe come prima. Le correnti e le sottocorrenti sono preesistenti a quella fusione ''tiepida” che ha unito ds e Margherita. Ho l'impressione che gran parte dei capi di queste correnti abbiano partecipato alla nascita del nuovo partito più con l'obiettivo di creare un contenitore che garantisse l'autoriproduzione di quelle componenti che non per cercare di costruire davvero un soggetto unico. Non ci sono diversi progetti politici, alternativi tra loro, ma ci sono divisioni fondate su rivalità personali, lotte di potere interne al partito». Allora, se un congresso non serve, come potete uscire da questa situazione? Lei ha una proposta?
«Sì. Io trasformerei l'attuale federazione di correnti in una federazione dei territori. Devo fare un'autocritica: mi rammarico di essermi fermato, quando ci furono le primarie, ad organizzare, con altri amici, una lista a favore di Veltroni con caratteristiche territoriali. Ora, se fossi al posto del segretario, farei io qualcosa per stimolare che questo nasca. Per esempio, partendo dal Nord, dove questo tema è più sentito e dove la sfida del partito territoriale esistente, cioè la Lega, è più forte».
Mi faccia capire, lei vuole fondare il partito democratico del Nord?
«Nella prossima primavera, abbiamo le elezioni europee, ma abbiamo anche alcune elezioni locali che, per certi aspetti, sono ancor più importanti per il nostro radicamento e per la continuità di certe esperienze di governo. Direi a Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto: ragazzi, mettetevi insieme, decidete voi un coordinatore che sia rispettoso delle rappresentanze nei vostri territori e decidete autonomamente alleanze politiche, programmi, candidati e leadership. Sarei io a spingere con forza nel senso di questa federazione dei territori».
Ma con chi dovrebbe allearsi il partito democratico del Nord? Con l'Udc e, cioè, con il centro o dovrebbe ritornare all'Unione?
«Io faccio un altro discorso. Ho l'impressione che organizzare una sommatoria di sigle rischi, per prima cosa, di non essere realizzabile e, poi, di non tradursi in una sommatoria di voti. Il Trentino lo dimostra: lì c'è stata un'originalità di rapporti. Il pd si è alleato con una lista territoriale che ha racchiuso tutta un'altra serie di sensibilità politiche».
Ma un progetto politico deve pur avere una direzione riconoscibile, non crede?
«Certo. In termini di progetto politico, è indubbio che la necessità di guardare verso il centro è forte, è quella prevalente. Le sfide politiche, è notorio, si vincono sottraendo voti al centro. Il problema è che il centro non sempre è moderato. Spesso è radicale, come quello della Lega, per esempio. Per vincere dobbiamo conquistare la vasta area che confluisce al centro dell'incrocio tra due assi: destra e sinistra, innovazione e conservazione. E questo non si ottiene sommando le attuali sigle di partito».
E allora, con chi?
«Sperimenterei, partendo dalle prossime elezioni, aggregazioni con una forte connotazione di rappresentanza territoriale e civica. Questa è l'unica condizione, facciamo l'esempio del Piemonte, per poter tenere insieme fasce di popolazioni, come quelle montane, e istanze sociali, come quelle legate alle fabbriche. Insomma, per mettere insieme rappresentanze diverse, come l'agricoltore cuneese e il cassintegrato della Bertone. Unire sensibilità diverse, come l'attenzione ai valori del mondo cristiano e la difesa della laicità dello Stato».
Queste non erano le ragioni fondative dell'Ulivo?
«Sì, si potrebbe anche parlare di un rilancio di quell'idea. Ma con questa forte specificazione territoriale. Non lo chiamerei più l'Ulivo, perché i nomi connotano un'esperienza, e quell'esperienza è finita. Ci vuole una scommessa nuova, che non punti alla sommatoria di sigle di partito, siano l'Udc o quelli della vecchia Unione».
Ma basta la territorialità per fare un partito? Questa non è la morte della politica, almeno come l'abbiamo sempre pensata: condivisone di ideologie o almeno di valori, di progetti ideali?
«Certo. Il territorio è condizione necessaria, ma non sufficiente. Il partito territoriale, me ne rendo conto benissimo, è la risorsa, ma anche il limite. Non essendoci sistemi di valori tali da esprimere un progetto politico credibile, che risponda alle aspirazioni di tutto il Paese, il territorio è l'unico punto di partenza per cercare di ricostruire questo insieme di valori e di messaggi programmatici, stando in mezzo ai problemi. È l'inizio di un cammino, ma sicuramente non ci si può fermare lì».