24.11.08

La Repubblica, lunedì 24 novembre 2008
Se in Italia i giovani leoni non hanno i denti
di Giuseppe D’Avanzo

Un indizio di conflitto generazionale fa capolino con il gonfiarsi dell´Onda studentesca - e speriamo che non sia fittizio, che duri e nel tempo si rafforzi. Finalmente, una forma di resistenza individuale e collettiva a un modello normalizzato che riconosce soltanto incertezza e precarietà alle giovani generazioni non protette dalla famiglia, dalle relazioni amicali, dalle connessioni di interesse. Un pregio della falsa «riforma Gelmini» è innegabile: ha costretto molti giovani ad aprire gli occhi su quel che li aspetta: precarietà prolungata; mediocri e intermittenti guadagni; incertezza nel reddito; insicurezza sulla continuità del lavoro; assenza di sostegno pubblico; impossibilità a programmare una vita consapevole (unione, nascita di figli, mobilità). I giovani sono come congelati in una dimensione di adulti immaturi, privati di opportunità e autonomia; imprigionati in un modello sociale e produttivo che non sa riconoscere la qualità e non premia il merito.
Al più, quando va bene (e va bene ai soliti noti), il «modello italiano» concede l´attenzione di una di quelle consorterie - Pierluigi Celli le chiama più esplicitamente «bande» - che «accreditano competenze, contrattano alleanze, tassano ogni forma di collocamento».
A fronte di questo dramma e dell´accenno di conflitto sociale che si può intravedere, il dibattito sull´esclusione dei «giovani» dalla leadership politica di una «Repubblica della Terza Età» è una lagna soporifera. È un piagnisteo che trascura una realtà molto più contraddittoria del diffuso luogo comune del «Paese dove il tempo si è fermato». È gne-gne che occulta un´autentica questione che interpella non tutto il Paese né tutto il ceto politico. Ma soprattutto l´università e la sinistra riformista (o il centrosinistra, chiamatelo come volete). Per almeno quattro ragioni.
Dunque, una giovane classe politica sarebbe tenuta fuori dalla porta delle stanze che contano. Primo argomento: sono davvero giovani?
Quei «giovani» che chiedono attenzione e pretendono, come un atto dovuto, accesso al potere, alle élites, alla classe dirigente, sono falsi giovani, ingrigiti, maturi, diciamo già un po´ spelacchiati. Come spiega Francesco Billari (il Mulino, 5/2007), le Nazioni Unite quando progettano azioni dedicate allo youth empowerment (più potere ai giovani) definiscono giovanile l´età che corre tra i 15 e i 24 anni e chiamano addirittura «giovani adulti» quelli che hanno tra i 20 e i 24 anni.
Anche la Commissione Europea considera «gioventù, l´età della vita che va dai 15 ai 25 anni». È dunque una bizzarra anomalia italiana considerare «giovane» chi è nato dopo il 1968 e magari ha già festeggiato i quarant´anni. Non è peraltro una anomalia del presente (secondo argomento). Alberto Alesina ha ricordato che, quando nel 1984 Franco Modigliani vinse il premio Nobel per l´economia, gli studenti italiani di economia di Harvard e del Mit lo invitarono a cena in un ristorante toscano di Boston. Modigliani raccontò che all´età di 52 anni, durante un seminario in Italia, fu presentato come «un brillante giovane economista» e lui replicò, quando prese la parola: «Grazie per il "giovane", ma negli Stati Uniti mi considerano un po´ passé».L´anomalia quindi non è nuova in Italia. Di nuovo, al contrario, c´è (terzo argomento, alquanto sorprendente) il tentativo di svecchiare élite politiche e ceti dirigenti. È vero, Berlusconi è in là con gli anni (72 anni) e lo separano più o meno due decenni da Sarkozy (53 anni), Merkel (54), Zapatero (48), Brown (57), però è altrettanto vero che, se si guarda ai cinque ministeri chiave, Economia (Tremonti, 61 anni), Interni (Maroni, 53), Esteri (Frattini, 51), Giustizia (Alfano, 38) e Difesa (La Russa, 61), la media è di 52 anni (era di 63 nel governo Prodi). Se poi si sbirciano i dati raccolti da Marco Leonardi (economista, Statale di Milano), si scopre che in Italia la giovane età non è un deficit nemmeno per gli amministratori delegati delle 200 aziende quotate in Borsa a Milano. Età media, 52,6. Nelle 4049 aziende quotate a Wall Street, l´età media dei chief executive officer (CEO) è più alta, anche se di mezza incollatura: 53 anni. Semmai i problemi sono tutti nella gerontocratica università italiana. Tra gli oltre 18mila cattedratici, solo 9 hanno meno di 35 anni e tre su dieci ne hanno più di 65, hanno contato Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Epperò lo svecchiamento degli ultimi anni con il proliferare di corsi di laurea e di sedi universitarie, con l´aumento del 100 per cento dei professori ordinari (ma alcuni parlano del 150 per cento) non ha migliorato la qualità né della ricerca né dell´insegnamento. Non basta essere giovani per cambiare in meglio l´esistente. Di sicuro non nell´università italiana.
A ben guardare, la politica se la passa meglio. Sei governatori hanno meno di 50 anni e l´età media è di 53 anni. Alla Camera l´età media degli eletti è di 50 anni e al Senato di 54 (senza i senatori a vita): una spanna meglio del Congresso americano dove, ricorda Leonardi, dal 1996 l´età media degli eletti è di 51 anni e al Senato di 58. In questo orizzonte, si dimentica sempre (colpevolmente, ottusamente) la rivoluzione della Lega. Il più "antico" partito del Parlamento italiano è la forza politica che, nell´ultimo decennio, ha governato un quarto del Paese creando, come ha osservato Andrea Romano, una classe dirigente «giovane e competente». Il 77 per cento degli eletti in Parlamento del Carroccio ha un´età che oscilla tra i 29 e i 49 anni (fonte, la voce.info) e la gran parte dei duecento sindaci leghisti sono quarantenni. I casi di Federico Bricolo (41 anni), già eletto nel 2001 (a 34), o dell´ex assessore del Veneto Francesca Martini (46 anni, già eletta alla Camera nel 2001 a 39) o di Matteo Bragantini (32) non sono eccezioni nel gruppo parlamentare più giovane della legislatura, età media 44 anni. È una classe dirigente cresciuta all´ombra della vecchia guardia padana, secessionista e folklorica, ma oggi pragmatica custode delle attese e le ambizioni di un elettorato che conosce come la sua famiglia e di un territorio che abita come la propria casa. È un´élite consapevole che debba essere la Lega «il motore riformatore del governo».
Silvio Berlusconi, si sa, non ha bisogno di una classe dirigente. Basta a se stesso. Come ha scritto Alberto Asor Rosa su questo giornale, il nostro carismatico premier «è un grande distruttore di élite: dove lui passa, non c´è straccio di classe dirigente che resista». Si sente Napoleone III o forse - meglio - Luigi XIV. Per governare gli è sufficiente un Richelieu (Gianni Letta, 73 anni), un Colbert (Tremonti) e, per antica abitudine, un avvocato (Niccolò Ghedini, 49). Per il resto, il sovrano si circonda di cortigiani sorridenti, fantaccini ostinati, belle e giovani signore e di un corteo di «vogatori, cruciferi, flabellieri, turiferari, toreadori», intercambiabili e ininfluenti come un Daniele Capezzone (36 anni). Da questo punto di vista, le rogne di un ricambio generazionale sono tutte allora del Partito Democratico, partito nuovo che si lascia alla spalle il suo solo leader vincente (Romano Prodi, 69 anni). Il PD, attor giovane del sistema politico italiano, dovrebbe essere più sensibile a liberarsi dell´autarchia generazionale e, a parole, è così.
Altri sono i fatti. Tra gli eletti del Pd gli under 40 (dunque, i giovani autentici) sono appena il 13 per cento e, se si allarga la forbice ai 49 anni, si arriva soltanto al 43 per cento (34 per cento in meno rispetto alla Lega, il partito - ripeto - più «antico»). Un risultato assai modesto, anche se il PD è riuscito ad abbassare in questa legislatura la media dei suoi eletti da 54 a 49 anni, un anno in meno del Partito della Libertà (50). Se poi si guarda ai criteri di selezione o alla qualità di questa presenza giovanile, la luna diventa nera. Al contrario dei volti nuovi della Lega, non si scorge nessun radicamento nel territorio, nessun legame con la società. Paiono decisive cooptazione, fedeltà senza discussione, buona presenza mediatica.
L´avventura politica di Marianna Madia ne è il prototipo più esplicito. Ventotto anni, scelta addirittura come capolista a Roma, presentata come «economista» tra le perplessità degli economisti, avventurosamente si presentò così: «Metto al servizio del Paese la mia incompetenza». Merito, competizione e senso di responsabilità non orientano i comportamenti e le scelte di chi governa il Partito Democratico né sollecitano quei giovani che chiedono di governarlo o almeno di contare di più, di avere più spazio e potere. Chi, con la giovane età, una competenza può vantarla come Irene Tinagli (34 anni, ricercatrice presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh) se ne va già disillusa («Ero stata contattata per le mie competenze tecniche, in un anno di PD non sono stata consultata nemmeno per un parere»). Nella convinzione che l´azione politica si svolga tutta all´interno dello spazio mediale, ha nel PD più visibilità un demi-monde mediatico, blogger come Luca Sofri (44 anni), Diego Bianchi (38), Mario Adinolfi (37). Competenze? Pochine. Luca Sofri lo ha ammesso con onestà durante i lavori di una direzione (è tra le venti personalità indicate da Walter Veltroni). Sofri disse a brutto muso: «Sono qui a discutere come affrontare il secondo decennio del Duemila le stesse persone che non hanno saputo affrontare il primo e che erano qui nel millennio precedente» per poi concludere: «. Non pretendo di spiegare a persone molto più esperte e competenti di me quali contenuti dare al presente e al futuro del Partito Democratico. Non sto parlando di contenuti e non sarei all´altezza di discussioni molto approfondite ed elaborate». Chapeau!
Ho l´impressione che, in assenza di competenze, i giovani che vogliono fare del PD, come scrivono nel loro blog (Uccidere il padre), «un partito moderno, democratico, laico e di sinistra» (e capirai che puntuta e illuminante freschezza), chiedono soltanto di togliersi dai margini, di farsi benedire e riconoscere sventolando appartenenza. È l´accorta pulsione, temo, che può spiegare la rimozione in quel partito di ogni conflitto politico per mano dei più giovani.
È il quarto e ultimo argomento: se si guardano i numeri, la politica italiana non è priva di giovani. Anzi, è giovane. Il suo deficit è un altro.
Se si guarda al PD, è ossessionata dall´obbedienza, disinteressata alle competenze spendibili liberamente. È dominata dalla prudente ragione del primum vivere che orienta da sempre i maturi di ogni partito e ora anche gli acerbi dell´ultimo partito nato. E´ una politica che non conosce il conflitto.
Il conflitto vero sulle questioni reali (non le cerimonie mediatiche) è, al contrario, sempre salutare e necessario se un corpo sociale, qualche che sia, non vuole sclerotizzarsi e conservare vitalità e dinamismo. E´ il conflitto il grande assente nel parolaio del discorso politico giovanilistico. Dove comme il faut si fa un gran parlare di Barack Obama (chi sarà il nostro Obama? dove troveremo il nostro Obama?).
Si dimentica che il nuovo presidente americano ha sconfitto in campo aperto, al termine di una lunga e dura battaglia, Stato per Stato, elettore per elettore, due micidiali clan politici (Bush e Clinton) che hanno governato gli Stati Uniti negli ultimi venti anni. Lo ha fatto in splendida solitudine ché, in avvio, ha dovuto fare a meno anche dell´appoggio della macchina elettorale afroamericana di Al Sharpton e Jesse Jackson che lo guardavano con freddezza. Ce l´ha fatta non perché è su Facebook (anche), ma perché (innanzitutto) ha un´idea della natura della crisi degli Stati Uniti e un programma per affrontarla. È apparso autorevole, credibile, responsabile, capace di stringere forti legami sociali, di radicarsi nel Paese e tra la sua gente perché la sua intelligenza delle cose è maturata a contatto con la realtà in cui vive e si muove un popolo in carne e ossa e non nel mondo frammentato dell´immagine, dei consumi, delle mode, dello spettacolo dove abitano soltanto figurine di cartone.
Se prendere atto delle metamorfosi non significa condividerle, si può dire - e non è una provocazione - che la declinazione della politica di Obama ha più a che fare con la giovane classe dirigente della Lega che non con i giovani leoni senza denti del Partito Democratico. Converrà allora che quei giovani si diano da fare. Riscoprano il conflitto. Comincino a pretendere regole certe per le primarie, come propone da tempo Tito Boeri. Pretendano il ritorno al voto di preferenza. Esigano che l´età di elettorato attivo e passivo coincida, come in Germania, Svezia, Spagna. Diano battaglia. Soltanto con un conflitto aperto di ideali, progetti, analisi, competenze, soltanto con un conflitto leale nella raccolta del consenso, quindi nella misura di un concreto radicamento sociale, si potrà coltivare la speranza di un nuovo riformismo, la convinzione di potercela fare a cambiare l´Italia, a fermarne il declino e la deriva autoritaria. Altra ambizione non può esserci e, se c´è, non è soltanto mediocre. È perdente e, peggio, noiosa come un´impotente lagna.

19.11.08

La Repubblica, mercoledì 19 novembre 2008
E' il momento di cambiare. Noi, costretti a regalare il cervello all' estero
di Renato Dulbecco


Ho lasciato il mio Paese nel 1947, a soli 33 anni, per gli Stati Uniti, per poter sviluppare le ricerche scientifiche che mi hanno fatto meritare il Premio Nobel per la Medicina, molti anni dopo, nel ' 75. Oggi mi fa male vedere che, dopo oltre 60 anni, la situazione di crisi della ricerca scientifica in Italia non è cambiata, anzi. Lo dimostrano i più di mille ricercatori italiani sparsi per il mondo che hanno già riposto all' appello di questo giornale e che hanno dovuto, come me, lasciare il Paese per dedicarsi alla scienza. Il mio rammarico non è una questione di nazionalismo: la scienza per sua natura ignora il concetto di Patria, perché è e deve rimanere universale. Anzi, penso sia importante per uno scienziato formarsi all' estero e studiare in una comunità internazionale. Tuttavia dovrebbe anche poter scegliere dove sviluppare le sue idee e i frutti del suo studio, senza dover escludere del tutto il Paese dove è nato. Ciò che mi dispiace profondamente è toccare con mano l' immobilismo di un' Italia che sembra non curarsi della ricerca scientifica, esattamente come nel dopoguerra.
Come se più di mezzo secolo di esplosione del progresso scientifico fosse passato invano. Chi vuole fare ricerca se ne va, oggi come ieri, per gli stessi motivi. Perché non c' è sbocco di carriere, perché non ci sono stipendi adeguati, né ci sono fondi per ricerche e le porte degli (ottimi) centri di ricerca sono sbarrate perché manca, oltre ai finanziamenti, l' organizzazione per accogliere nuovi gruppi e sviluppare nuove idee. Perché non esiste in Italia la cultura della scienza, intesa come tendenza all' innovazione che qui, negli Stati Uniti, è privilegiata in ogni senso ed è il motore del cambiamento.
Ciò che è cambiato concretamente, rispetto ai miei tempi, è che la ricerca scientifica, spinta dalla conoscenza genomica che è stata al centro del miei studi e oggi rappresenta il futuro, richiede molti più investimenti in denaro e persone rispetto a 60 anni fa. Si allungano così le distanze fra Paesi che investono e quelli che non lo fanno. L' Italia rischia, molto più che negli anni Cinquanta, di rimanere esclusa definitivamente dal gruppo di Paesi che concorrono al progresso scientifico e civile.
Io sono uno scienziato e non ho la ricetta per salvare la ricerca italiana, ma proprio come "emigrato della ricerca " posso dire che i modelli ci sono, anche vicini ai nostri confini, senza guardare agli Stati Uniti, che sicuramente hanno una cultura e una storia molto diversa dalla nostra. Basterebbe iniziare a riflettere dal dato più semplice. Un Paese che investe lo 0,9% del proprio prodotto interno lordo in ricerca, contro la media del 2% degli altri, non può essere scientificamente competitivo né attirare a sé o trattenere i suoi ricercatori migliori.

15.11.08

La Repubblica, sabato 15 novembre 2008
Politica nell' angolo tutto il potere è dell' economia
di Luciano Gallino

Allo scopo di rinnovare la classe politica sarebbe necessario rinnovare anzitutto il terreno al quale la politica si applica. Negli ultimi decenni tale terreno si è contratto, mentre i suoi contenuti divenivano estranei all' agire politico in generale, sia dei cittadini che dei loro eletti. In Italia è intervenuta come in altri paesi una nuova "grande trasformazione", nel senso che Karl Polanyi vi dava più di sessant' anni fa. L' economia è esondata. E' uscita dal suo alveo di strumento indispensabile per la sussistenza umana imponendosi alla società come fine ultimo. La società è stata così trasformata in accessorio dell' economia. Da qui deriva la sterilità della politica: se il terreno su cui si applica è occupato per intero da problemi come i decimi di punto del Pil, la competività, il debito pubblico, l' andamento delle borse, lo stato di salute delle banche, i politici vengono trasformati in amministratori. Prendono nota delle grandezze economiche in gioco, e provano a farle quadrare manipolando quelle poche variabili sui cui credono di poter incidere. Da parte loro i cittadini sono declassati a incompetenti che non hanno alcun titolo per intervenire nella cosa pubblica. L' economia posta al disopra della società richiede tecnici, esperti, sapienti, periti, tutti dotati di competenze superiori. I politici stessi assumono direttamente questi ruoli, o reclutano il personale adatto dall' esterno. L' eliminazione delle preferenze dalle liste elettorali è solo uno dei segni che attestano la superfluità dei cittadini.
Lo svuotamento del terreno della politica è specialmente evidente nella privatizzazione dei beni pubblici condotta in larga parte dalla destra con l' assenso del centrosinistra. La privatizzazione è ben più di una mera ideologia economica, ha scritto un noto politologo, Benjamin Barber. "Fraintende il concetto di libertà e in tal modo distorce quel che intendiamo per libertà civica e cittadinanza, spesso ignorando e talvolta scardinando il significato stesso di beni pubblici e di pubblica prosperità". I beni pubblici dovrebbero essere il terreno di elezione della partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica. Escluderli da esso mediante le privatizzazioni erode tanto la libertà quanto la democrazia.
Una classe politica rinnovata dovrebbe avere tra i suoi primi scopi l' allargamento della partecipazione dei cittadini, insieme con il rientro dell' economia nel suo alveo di strumento di cui la società decide gli impieghi, piuttosto che subirla come una padrona. Conosciamo bene l' obiezione. Al tempo in cui l' economia mondiale rischia di crollare, occorrono drastici rimedi economici, che i cittadini debbono accettare. Se non fosse che qui siamo dinanzi a un rovesciamento del rapporto tra cause ed effetti. E' stata l' abdicazione della politica, il porsi diligentemente al servizio dell' economia, che ha prodotto i disastri economici cui stiamo assistendo. Sono le leggi che la politica ha varato, in una con la sua assenza di scopi da porre all' economia: produrre tramite il lavoro più sicurezza umana piuttosto che insicurezza, ridurre gli abissi delle diseguaglianze, estendere la fruizione dei beni pubblici al maggior numero.
Questi stessi disastri offrono una grande occasione: quella di una ri-trasformazione dei rapporti tra economia e società in forza della politica. Ma non è immaginabile che prima si rinnovi la classe e dopo il terreno della politica. Occorre prima rinnovare questo, allargando gli spazi di partecipazione dei cittadini a tutti i livelli. Cominciando con l' invertire il processo di privatizzazione dei beni pubblici. Aprendo all' elettorato, a livello comunale, regionale e nazionale, i consigli dove si decide la gestione di questi. Provando a ragionare di politiche economiche e sociali fondandosi non solo sul Pil, ma anche su indicatori come lo Sviluppo Umano dell' Onu. E perché no, chiedendo ai media di spiegare senza ambiguità le origini politiche della cosiddetta crisi finanziaria.

14.11.08

La Repubblica, venerdì 14 novembre
Pochi, lenti e in ritardo i tre handicap dei giovani
di Massimo Livi Bacci

Pochi, lenti e tardi: in tre parole si potrebbe sintetizzare la sorte dei giovani italiani in questa prima parte del secolo. Pochi, per la parsimonia riproduttiva dei loro genitori; oggi toccano i vent' anni 600.000 ragazze e ragazzi, ma nel 1990 erano 900.000. Lenti: perché lenta è la transizione verso lo stato adulto e l' autonomia economica; più lenta rispetto sia alle generazioni precedenti sia agli altri paesi europei, inclusi quelli mediterranei culturalmente più vicini. Tardi, perché tardivo è l' approdo a quelle attività, carriere o professioni che «contano» o che, più modestamente, hanno una qualche incidenza nella vita economica, sociale e di relazione. Questa triade definitoria non è frutto di osservazioni superficiali, ma si basa su fatti e dati precisi che non lasciano adito a dubbi e dei quali è opportuno dare qualche saggio. Sul «pochi» si è detto, c' è solo da aggiungere che i giovani diventeranno meno numerosi nei prossimi anni, nonostante il soccorso degli immigrati. Sul «lenti» esiste una vastissima documentazione che prova come per percorrere le tappe per raggiungere l' autonomia adulta - formazione e studio, indipendenza abitativa, lavoro e reddito, unione e scelte riproduttive - ci voglia assai più tempo che in passato. L' intero ciclo universitario (il 3+2) viene terminato verso i 27 anni, diversi anni in più rispetto ad altri paesi europei; i tassi di attività tra i 20 e i 30 anni sono fortemente diminuiti nell' ultimo ventennio - a riprova che si entra nel mondo del lavoro sempre più tardi - e si è allargato il divario con i maggiori paesi; vent' anni fa tre giovani (donne e uomini) ogni dieci vivevano con i genitori, contro sei su dieci oggi; l' età media delle madri alla nascita di un figlio sfiora 31 anni, tre o quattro anni in più rispetto alla generazione precedente.
Il «tardi» è, naturalmente, la conseguenza del «lenti»: è la causa diretta del fatto che i giovani «che contano» si siano rarefatti assai più di quanto non sarebbe giustificato dal loro calo numerico. Qualche prova? C' è ampia scelta: si accede alle professioni più tardi, e un avvocato trentenne è per lo più senza reddito, mentre il suo omologo inglese o francese può sostenerci modestamente una famiglia; si vince il concorso in magistratura (una vera e propria élite) a 31 anni contro 28 verso il 1980; così è per i nuovi notai, anch' essi assai più vecchi che in passato. Nell' università si è detto e ridetto: il peso dei docenti giovani (con meno di 35 anni) si è dimezzato tra il 1985 e oggi, e non diversa è la situazione negli istituti di ricerca pubblici. Ma anche gli animal spirits imprenditoriali sono invecchiati: secondo la Cerved, tra le nuove imprese individuali, l' incidenza di quelle guidate da giovani si è ridotta dal 54 al 41 per cento tra il 2000 e il 2007, e la riduzione sarebbe stata assai più netta se non fosse stata frenata dalla forte crescita di giovani imprenditori stranieri. In politica, l' astensionismo elettorale dei giovani tra i 20 e i 25 anni è raddoppiato tra il 1994 e il 2006 e i giovani che hanno peso nelle gerarchie vanno cercati col lanternino.
Aggiungiamo anche che il corpo sociale - che è molto più malleabile delle istituzioni - ha generato i suoi anticorpi e i suoi anestetici oppiacei, ad evitare che la perdita di prerogative da parte dei giovani risultasse troppo dolorosa. Così è per il lungo parcheggio nell' università, considerato normale da famiglie e istituzioni; così è per le lunghe relazioni che precedono una unione e l' assunzione di responsabilità; così è per la lunga permanenza nella casa dei genitori; così è per lo scarso reddito da lavoro dei giovani. E anche il linguaggio si adatta: nel nostro ordinamento si può essere apprendisti (il ragazzo di bottega di un tempo...) fino a trent' anni; appartenere ai «giovani» industriali (generalmente figli di imprenditori) fino a 40; essere considerati troppo giovani per accedere ad una élite accademica a 50. Chiamiamo ragazza o ragazzo anche chi si è bene assestato nella mezza età.
I rimedi non possono essere affidati a «politiche giovanili» di marginale cosmetica. E' il funzionamento dell' intera società - quello che può essere modificato dalle politiche - che deve essere rivisto. La formazione deve essere più intensa e cadenzata, responsabilizzando giovani e famiglie; gli istituti contrattuali debbono adattarsi per consentire l' accesso al lavoro dei più giovani; le esperienze internazionali debbono moltiplicarsi (ben venga un Erasmus universale); l' autonomia di vita deve essere favorita (politica edilizia dell' affitto, delle residenze studentesche); l' imprenditorialità e l' inventiva vanno sostenute. Si tratta di politiche impegnative e costose - ma con ritorni assai cospicui: se i giovani in Italia fossero presenti al lavoro come altrove in Europa, avremmo tra 1 e 2 milioni di occupati in più (e un Pil del 4-8% più alto).
Poca fiducia avrei nelle «quote giovani». Le «quote» sono forse giustificabili quando il normale funzionamento della società non sia capace di superare storici ritardi e qualora una sferzata possa provocare uno choc risolutivo. Nel caso delle donne in politica si può argomentare che dopo sessant' anni di suffragio universale e di vita democratica, la loro presenza in Parlamento è ancora scarsissima e che l' attività legislativa ha tutto da guadagnare dalla loro equilibrata partecipazione. Nel caso dei giovani, però, è certo che la restituzione delle prerogative perdute e di un adeguato spazio di azione potrebbe avvenire con le normali e per nulla eccezionali politiche che sono alla portata di qualsiasi governo che le voglia intraprendere
.

13.11.08

La Repubblica, giovedì 13 novembre 2008
Diamo il voto ai sedicenni
di Ilvo Diamanti

Il sogno americano, interpretato da Obama, a molti italiani evoca, soprattutto, la possibilità e la capacità di cambiare. Perché Barack Obama è giovane e di colore. Parte di una minoranza, fino ad oggi esclusa dal potere. In più: non ha alle spalle una carriera politica lunga. Non fa parte delle oligarchie familiari che contano, fra i repubblicani e i democratici. La voglia di cambiare, cioè, ha spinto una grande quota di cittadini americani - anche "bianchi" - a scegliere (in larga maggioranza) un presidente meno condizionato da interessi ed eredità sociali, generazionali, familiari. Evidente la frattura rispetto all' Italia.
D' altronde, in nessun altro luogo in Europa l' incapacità di cambiare e di innovare la classe dirigente è altrettanto evidente che in Italia.
In Spagna: in trent' anni di democrazia si sono succedute quattro leadership.
In Francia, nel corso della V Repubblica, si è passati dal gollismo al mitterrandismo fino al sarkozysmo. Il cui interprete, Nicolas Sarkozy, non proviene dalle Grandes Ecoles; ed è, inoltre, di origine straniera (ungherese, per la precisione). Ma lo stesso vale per la Germania (passata, in vent' anni, da Kohl a Schroeder fino ad Angela Merkel) e per l' Inghilterra (dalla Thatcher a Mayor; e da Blair a Gordon Brown). Nell' Italia repubblicana, invece, i cambiamenti sono avvenuti in modo sporadico, per strappi e rivoluzioni. La generazione politica che ha costruito la democrazia e ricostruito l' economia e la società italiana era, prevalentemente, "giovane" all' indomani della guerra, nella fase costituente. Un po' meno, cinquant' anni dopo, quando, in buona parte, guidava ancora il sistema politico e le istituzioni.
Il Sessantotto, in realtà, non ha prodotto fratture determinanti nella classe dirigente dei partiti maggiori. Neppure a sinistra. Ne ha, semmai, accelerato la crisi. Perché si verificasse un cambiamento profondo si è dovuto attendere la fine della Prima Repubblica, nei primi anni Novanta. Appunto: una "rivoluzione". La caduta del "nostro" muro. Tuttavia, dal punto di vista dei soggetti politici e della leadership, le novità più rilevanti sono emerse a Destra. O, comunque, da settori antipolitici. Dalla Lega, anzitutto, la quale ha favorito l' accesso nel sistema politico e di governo di categorie divenute periferiche nei partiti di massa. Operai e lavoratori autonomi, giovani, "dilettanti" politici. In seguito, l' ha affiancata e sovrastata Silvio Berlusconi, che, con il suo "partito personale", ha occupato lo spazio lasciato vuoto dai partiti di governo. Berlusconi e Bossi: entrambi del Nord, entrambi "padroni" del loro partito, entrambi "nuovi" per linguaggio e stile di leadership. Politici impolitici e populisti. Maestri della personalizzazione: territoriale oppure mediatica. A sinistra, l' affermazione di Romano Prodi e dell' Ulivo è stata favorita dalla debolezza dei partiti tradizionali. Sopravvissuti allo sfascio del sistema. Ma sradicati dal punto di vista sociale e del territorio. E zavorrati dall' eredità politica del passato.
Più che imporsi, Prodi è apparso, allora, una reazione difensiva alla sfida di Berlusconi.
Quindici anni dopo, siamo sprofondati in un "regime oligarchico e personalizzato", che non lascia spazio al rinnovamento.
A destra, Berlusconi e Bossi sono saldamente in sella ai loro partiti. Intorno al Cavaliere: esperti, consulenti di fiducia, amici e amiche. Un modello "cortigiano". In cui la successione può avvenire solo per via dinastica. Il più tardi possibile, visto che il Sovrano prevede di mantenere lo scettro oltre il secolo di vita. A sinistra, Prodi è stato sostituito, alla guida, dai "ragazzi" della Figc e del Movimento Giovanile Dc degli anni 70 e 80. Le primarie hanno plebiscitato prima Prodi e poi Veltroni, senza vera competizione. Mentre a livello territoriale appaiono, molto spesso, regolate dal centro. Il loro esito: predeterminato. Insomma: non appaiono ambienti di lotta per la vita. Di selezione darwiniana. Dove possano emergere i migliori; in grado, per affermarsi, di "uccidere" padri e maestri.
Anche l'esperienza dei sindaci che, nei primi anni '90, aveva promosso un significativo rinnovamento della classe politica non ha trovato sbocchi in ambito nazionale (salvo che per i sindaci di Roma) ed è stato "normalizzato" in periferia.
Tutto ciò, d' altronde, riflette un vizio nazionale, che, negli anni, è degenerato. Siamo una società familista e vecchia. Vecchia e familista. E, inoltre, corporativa e localista. Immobile e chiusa. La politica, in fondo, ne riproduce ed enfatizza i limiti, come un gioco di specchi.
Un paese previdente si attrezzerebbe per superare in fretta questo problema, che sta producendo effetti devastanti.
Penserebbe, ad esempio, a favorire l'accesso nella politica e nelle istituzioni delle componenti "nuove"; delle "minoranze". Applicherebbe seriamente le quote "rosa", riservate alle donne. Ma introdurrebbe anche le quote "verdi", riservate ai giovani con meno di 35 anni. Abbasserebbe l' età del voto a 16 anni, anche alle politiche. E allargherebbe agli immigrati regolari il diritto di voto, alle amministrative e non solo. (Da noi, l' abbiamo già detto, Obama potrebbe, al massimo, ambire all' incarico di mediatore interculturale in qualche amministrazione di sinistra). Tuttavia, l' interesse comune contrasta con quello particolare. L' investimento nel futuro, anche immediato, è frenato dalle resistenze del passato. Per cui è difficile immaginare grandi mutamenti, senza nuovi strappi. Come nel '45, nel '68 e nel '92. Senza rivoluzioni, senza fratture e "ribellioni" è difficile che le donne e - a maggior ragione - i giovani divengano protagonisti. Per questo guardiamo con interesse alle mobilitazioni studentesche di queste settimane. Al là degli obiettivi espliciti, possono diventare occasioni importanti di "formazione politica". Esperienze utili all' affermazione di nuovi leader. Tuttavia, questi giovani, questi studenti, difficilmente riusciranno a diventare una "generazione politica" con il permesso e la compiacenza dei genitori e dei professori.

12.11.08

La Repubblica, mercoledì 12 novembre 2008
Il tempo lungo del Ricambio
di Nadia Urbinati

La vittoria di Barack Obama ha riaperto le ferite della sinistra italiana dimostrando una volta di più come sia misera la sua condizione: è più facile per un nero essere eletto alla Casa Bianca che per un partito riformista vincere le elezioni in Italia. Che cosa c' è che non va e perché l' Italia è così refrattaria al cambiamento in meglio e così irrimediabilmente conservatrice e facile al cambiamento in peggio? Che cosa ha portato Obama a vincere che può costituire un insegnamento per la sinistra italiana? Con tutta onestà penso che guardare in questo modo all' America di Obama, cercare nella vittoria di Obama una guida per la sinistra italiana, sottolinea una debolezza che è ancora più macroscopica di quella che la sconfitta dell' aprile scorso ha registrato.
Fare domande giuste può aiutare a dare risposte adeguate. Obama non può essere un modello per nessun paese che non sia l' America. Mai come in questo caso l' America si è confermata un' eccezione. Quanto tempo un francese dovrà aspettare per vedere un africano varcare la soglia dell' Eliseo o un italiano quella di Palazzo Chigi? Dunque, l' America non può essere imitata. Né vale accalappiarne gli slogan. Lo slogan "I can" dimostra il coraggio (tutto americano) di chi lo ha forgiato e voluto perché solo chi ha la consapevolezza della propria forza sa essere ragionevolmente responsabile da rischiar. Proviamo a immaginare il senso del ridicolo che quello slogan poteva gettare su Obama se egli fosse stato sconfitto. La vittoria di Obama può essere di un qualche aiuto solo se ci consente di vedere meglio i nostri problemi (i problemi del Partito democratico e in senso generale dell' opposizione). Il problema italiano è la mancanza di leadership. Leadership é una parola complessa. È un nome singolare-collettivo che è fatto di tante componenti: dalla formazione scolastica, alla struttura dei partiti, al sistema di selezione a tutti i livelli della società, all' ordine istituzionale e -ultimo, ma primo-al sistema etico e di valori. Tutto questo insieme compone la leadership di un paese democratico. Come si può intuire si tratta di una forma di vita e di società, non semplicemente di una qualche riforma o di ingegneria elettorale o accomodamenti a puzzle.
Il tempo di formazione e consolidamento delle classi politiche (delle quali la leadership è parte) è un tempo lungo. Anche se con le elezioni si possono cambiare i rappresentanti in tempi relativamente brevi, il pool da dove i possibili candidati emergono o si formano non é azzerato ad ogni elezione. La società politica (partiti e movimenti hanno bisogno di stabilità e continuità nel tempo). Questo mette in evidenza la tensione interna alle democrazie elettorali: ricambio periodico e in tempi brevi come norma del ciclo elettorale, ma riconferma dell' eletto per più di un mandato come regola di prudenza, anche perché per far sì che un politico renda conto agli elettori è almeno necessario che si ricandidi. In sostanza, il paradosso è che se si vuole che l' elezione svolga la sua funzione di incentivo-deterrenza sull' eletto non ci deve essere un ricambio continuo, con i rischi evidenti di formazione oligarchica (è su questo aspetto che i critici della democrazia hanno insistito sistematicamente per gettare discredito su questo sistema politico). Comunque sia, la classe politica democratica è a un tempo stabile ed esposta al mutamento.
Tuttavia, mutamenti troppo repentini e radicali sono un problema e dovrebbero essere un' eccezione. Ad insegnarcelo é proprio il caso italiano, perché i problemi che oggi ci attanagliano hanno avuto origine quando la classe dirigente nazionale (i suoi partiti moderati, soprattutto) è stata liquidata con il codice penale nello spazio di una manciata di mesi. Da allora, siamo alla ricerca di una classe politica, se non eccelsa almeno di valore meno mediocre di quella che abbiamo, e soprattutto meno corrotta. Per anni si é pensato che l' ingegneria elettorale potesse risolvere il problema e si é imboccata la strada assurda di cambiare sistema elettorale praticamente ad ogni legislatura, e a seconda dell' interesse della maggioranza di turno. Una stabile regolarità nel ricambio della leadership politica richiederebbe sistemi elettorali stabili. La stessa logica ha precipitato l' erosione del partito della sinistra. Il paradosso italiano potrebbe essere così sintetizzato: tutto cambia e tutto peggiora perché nulla muta. E infatti, non c' è parola più abusata di "riforma". L' esempio del sistema scolastico è quanto di più sconfortante: in pochi anni lo abbiamo cambiato e ricambiato e cambiato ancora in ogni ordine e grado eppure pochissimo è cambiato nel sistema di reclutamento o di pulizia morale nei metodi di assegnazione degli incarichi. Il risultato non è una scuola migliore e piu aperta al merito ma una scuola peggiore più esposta ai rischi di classismo; e questo ovviamente non aiuta a formare o consolidare una classe dirigente, politica e sociale che sia. La continua rincorsa a riformare (ogni governo disfacendo quello fatto dal precedente - anche non aveva fatto cose pessime) ha contribuito a destabilizzare più che a consolidare un sistema efficiente e giusto di selezione. Riformare l' involucro senza cambiare l' atteggiamento mentale ed etico degli attori è tra le ragioni quella che più ha contribuito a generare le disfunzioni delle quali ci lamentiamo.

11.11.08

La Repubblica, martedì 11 novembre 2008
Una missione per la politica
di Tito Boeri

Sono in molti in Italia ad avere issato lo spinnaker sperando di gonfiarlo col ponente teso che spira dopo la vittoria di Barack Obama. Ma non basta usare vele con nomi anglosassoni e agitare le bandiere di "chi può" per tornare a essere politicamente competitivi. Il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha di fronte a sé un' agenda obbligata e margini di manovra molto ristretti. Ha vinto con un programma meno radicale di quello di Hillary Clinton. Né si intravedono sin qui quei grandi cambiamenti nelle coalizioni di governo, i cosiddetti "political realignments", che preludono alle grandi svolte nella politica americana. I ripetuti messaggi di continuità con l' amministrazione Bush lanciati nella prima conferenza stampa da presidente degli Stati Uniti in pectore sono indicativi.
Investire sul futuro di Obama è perciò un' impresa ad alto rischio. Molto meglio investire sul passato di Obama, sulla sua incredibile campagna elettorale, fatta di primarie vere, dall' esito spesso imprevedibile perché molto più partecipate che in passato, e di internet, come strumento di comunicazione e di finanziamento. Abbiamo molto da imparare dal candidato Obama nel migliorare i processi di selezione della classe politica all' interno del nostro paese.
Il suo "yes, we can" è soprattutto un riconoscimento alla democrazia di internet, alla sua capacità di moltiplicare il potere delle idee, al di là, se non contro, i grandi mezzi di comunicazione. Ma internet non sarebbe bastato se non ci fossero state regole che permettono una vera competizione all' interno dei partiti, aperta anche a chi sta fuori dall' establishment.
Chi vuole raccogliere la bandiera di Obama deve accettare queste regole, deve permettere una vera competizione nel mercato del lavoro dei politici. Ne abbiamo disperato bisogno. I problemi del nostro paese sono in gran parte problemi di inadeguatezza della nostra classe dirigente, a partire dalla classe politica.
Nel passaggio dalla Prima alla seconda Repubblica il processo di selezione della nostra classe politica è solo peggiorato. Una volta esistevano i partiti di massa che svolgevano al loro interno la selezione. Contavano le decisioni dei vertici, ma anche i militanti potevano dire la loro. Difficile essere candidato senza il gradimento della base, anche in un collegio elettorale sicuro. Poi i partiti di massa si sono sgonfiati, il rapporto fra militanti ed elettori è crollato, e sono rimasti quasi solo i capi partito a selezionare la classe politica. Il loro potere è sopravvissuto alla crisi dei partiti, in alcuni casi si è addirittura rafforzato grazie alla crisi dei partiti, come dimostrano i tanti one-man party che sono fioriti negli ultimi anni.
Cosa ha dato a questi comandanti senza esercito tanto potere? Sicuramente il finanziamento pubblico dei partiti che ha messo ingenti risorse a disposizione delle segreterie. Ma anche regole elettorali, come le liste bloccate, che hanno reso autocratica la selezione dei politici. Come è stato usato tutto questo potere dai segretari dei partiti? Male, molto male, almeno dal nostro punto di vista. Abbiamo avuto parlamentari sempre più vecchi e sempre meno istruiti, come documentano i dati raccolti da un gruppo di ricercatori coordinati da Antonio Merlo dell' Università della Pennsylvania (www.frdb.org). La quota femminile è rimasta più o meno la stessa. Sono, invece, aumentate le cooptazioni all' interno della classe dirigente: la quota di manager tra i nuovi parlamentari, ad esempio, è costantemente cresciuta fino a toccare il record nelle ultime elezioni, con un manager ogni quattro nuovi eletti.
La candidatura di qualcuno dell' establishment rientra spesso in uno scambio di favori. Meglio se il candidato è inesperto e non intende fare carriera in politica. Anche a costo di sguarnire le commissioni parlamentari, è bene tarpare le ali a potenziali concorrenti. Fatto sta che in Italia c' è una fortissima rotazione nei parlamentari: un deputato su tre rimane in carica per un solo mandato, contro, ad esempio, uno su cinque negli Stati Uniti. E' un bene? Niente affatto. La politica è una professione impegnativa, si impara facendo.
Oggi l' Italia è dominata da un gruppo ristretto di politici a vita che danno l' illusione del ricambio permettendo a innocui "volti nuovi" di entrare a Montecitorio o a Palazzo Madama. Non si investe in nuovi parlamentari. Né i nuovi parlamentari investono in una carriera tra gli scranni: semmai il Parlamento diventa un parcheggio, una pausa in cui coltivare reti di relazioni utili per il dopo.
Il tutto avviene, ovviamente, a carico dei contribuenti. Ed è un carico elevato dato che gli stipendi dei parlamentari sono aumentati a tassi da boom economico (+4% l' anno) dal 1980 ad oggi, mentre il Paese entrava progressivamente in una lunga fase di stagnazione. La nostra ben pagata pattuglia al Parlamento Europeo è storicamente quella coi tassi di rotazione più alti dell' Unione: addirittura un parlamentare su tre lascia prima della fine del suo mandato. E' un mestiere complicato quello del parlamentare europeo. Quando si comincia a imparare qualcosa, si sono già fatte le valige, meglio i bauli, del rimpatrio.
I cappellini pro-Barack sono "one size fits most", una taglia va bene per molti, ma non per tutti. Chi vuole metterseli in testa deve accettare di cambiare le regole di selezione della classe politica. Basta col finanziamento pubblico dei partiti. Basta con le liste bloccate. Meno parlamentari e, quei pochi, scelti con cura dalla base dei partiti nell' ambito di primarie vere, il cui esito non è precostituito dalle segreterie. C' è qualcuno lassù disposto a raccogliere questa sfida?