22.12.08

BENVENUTI NEL BLOG NEWTO

E' ONLINE IL BLOG DI NEWTO: UNO SPAZIO LIBERO E APERTO ALLA CONDIVISIONE DI IDEE, ESPERIENZE, PROGETTI.

NewTo su Career Tv

Guarda e ascolta l'intervista di Career Tv a Piero Gastaldo, segretario generale della Compagnia di San Paolo, sui temi della meritocrazia e del ricambio generazionale e sull'attività di Newto.
Scarica il link qui sotto

http://www.careertv.it/compagnia-di-san-paolo/meritocrazia-alla-compagnia-di-san-paolo-trasparenza-e-apertura-310.htm
Giovedì 11 dicembre 2008
I maestri liberali non hanno tradito
di Alberto Mingardi
Caro direttore, a differenza di Vittorio Macioce, non credo che i «maestri liberali» si siano nascosti. Mi preoccupano piuttosto gli allievi. Mi spiego.
Nel suo j’accuse, Macioce mescola tre piani di analisi che sono sostanzialmente diversi. In primo luogo, considera criticamente l’incapacità di organizzazione dei liberisti italiani, che immagina - in ossequio allo stereotipo - pochi e malmessi. In seconda battuta, s’interroga sull’orizzonte di patente irrilevanza in cui sembrano essere precipitate idee che solo ieri, per quanto incapsulate in una nicchia, erano depositarie di un grande avvenire. Alla fine, fa due più due e legge la debolezza nel liberismo, in una scarsa comprensione del suo retroterra morale, più che di «efficienza». La libertà non può valere solo quando «funziona». Altrimenti basta un sabotaggio, per convincerci a cambiare strada. Punto primo. L’organizzazione. Quella dei liberisti non è solo l’incapacità di parlare con una voce sola - presumibilmente dovuta al loro individualismo congenito. Per anni, e ancora oggi, è il rosolarsi compiaciuti in uno stato di minorità. È una caratteristica tipica di tutti i movimenti che hanno poche risorse e poca visibilità. Mi ignorano dunque sono. Il vittimismo di Vittorio Macioce non sfugge alla regola.
Sorpresa: il cielo è un poco più blu. Basta andare in libreria. Hayek non lo confondono più con un autore di gialli, persino Bastiat o Rothbard sono nomi relativamente noti. Se c’è offerta, almeno un po’ di domanda ci deve essere. E questa è una differenza abissale con l’Italia degli anni Sessanta e Settanta, quella che vedeva Bruno Leoni rinunciare a tradurre il suo capolavoro, e Sergio Ricossa «impegnato a dimettersi» da istituzioni e giornali per cui era troppo di destra.
Non siamo tuttavia nemmeno in un’Italia che abbia fatto davvero un bagno di liberismo. E vengo al secondo punto.
Se c’è una cosa che era evidente ieri e che è doppiamente evidente oggi, è che da noi è mancato un leader che, come la signora Thatcher, sventolasse The Constitution of Liberty di Friedrich von Hayek per dire: questo è quello in cui crediamo. È un dato di fatto, non una colpa. Rileggete la storia della seconda repubblica. Chi le ha fatte, le privatizzazioni? Paradossalmente la sinistra, non Berlusconi. Il partito liberale di massa ha variamente reagito al passaggio in mani private dei resti dell’Iri, ai tentativi di liberalizzazione del commercio, all’attacco agli ordini professionali e alle medicine al supermercato. Di una sola campagna liberista aveva il monopolio. Per inciso, la più importante: quella per l’abbassamento della pressione fiscale. Ma se le tasse in Italia scendessero davvero, su quale promessa la destra potrebbe rivincere le elezioni?
In queste condizioni, possiamo stupirci che qualcuno legga la recessione incipiente quasi con masochistico compiacimento? È Schadenfreude («piacere provato dalla sfortuna dell’altro», ndr). Avendo masticato amaro per gli anni del Washington Consensus e della globalizzazione rampante, a buona parte della nostra intellighenzia non è parso vero che il capitalismo fosse finalmente lì, dove doveva stare dai loro vent’anni: sul precipizio di una terribile crisi. Hanno sbagliato, i nostri «maestri liberali»?
No, hanno fatto il loro dovere, predicando coi mezzi che avevano e le parole che sapevano usare. Sono gli allievi, che dovrebbero portare la fiaccola alla stazione successiva. Calare le idee nel reale, trasformarle in proposte, sminuzzarle in messaggi comprensibili alla sciura Maria. Il liberismo è finalmente arrivato in libreria, ma ora deve uscirne.
Eccoci al terzo punto. Abbiamo pensato che questo lavoro lo dovessero fare gli economisti. Gli economisti italiani sono bravissimi. La loro diaspora ha arricchito le università di tutto il mondo. E hanno per le mani l’arte oracolare dei tempi nostri. Però stavolta non hanno tenuto botta. Questa crisi è la loro. È passato il cigno nero, e politiche profondamente sbagliate ci hanno presentato il conto tutte assieme. Certi raffinatissimi modelli matematici hanno vacillato. Ma se gli economisti sentissero quel «tabù dello Stato», quell’istintiva diffidenza rispetto alla discesa in campo del pubblico che è poi ciò che distingue chi ha cuore la libertà da chi può farne legittimamente a meno, non si sarebbero gettati a pesce su ricette del passato, in passato spettacolarmente fallimentari, nell’isteria di salvare il Titanic a colpi di spugna. L’umiltà epistemica, che del liberalismo è uno dei tratti salienti. Il senso del limite, innanzi all’inaspettato. L’incapacità di sterminati eserciti di regolatori di predire il futuro. Questo ci insegna la crisi.
E tale insegnamento ci sarebbe evidente, se avessimo occhi buoni. Abbiamo lo sguardo appannato perché a furia di sentire frottole sul mercato, quelle abbiamo imparato. Così, se un operatore fallisce, o quando i prezzi scendono, è il sistema che è marcio: mentre invece esso si sta, dolorosamente, aggiustando. Stavolta i chierici che hanno tradito sono gli allievi di Adam Smith. Per spirito di corpo. È dai loro ranghi che vengono i regolatori del mondo.
Su un punto, Vittorio Macioce ha ragione. Il mercato non è giusto perché serve, ma serve perché è giusto. Perché l’insieme di libertà e tabù che costituisce l’architettura fragile del sistema della libera impresa, è l’unica cornice in cui possano fiorire la creatività, la voglia di fare, il bisogno di realizzarsi delle persone. L’efficienza allocativa è un corollario, non un presupposto. Parafrasando Franklin, chi è pronto a rinunciare alla libertà per comprarsi briciole di benessere sociale, non merita né l’una né l’altro. E infatti né l’una né l’altro avrà.
Il Giornale, lunedì 8 dicembre 2008
Maestri liberali battete un colpo
di Vittorio Macioce

Cari maestri, dove vi siete nascosti? Questo Paese ha nostalgia del Novecento e c’è una gran voglia di «impiccare» i liberali. È la vendetta di tutti gli orfani delle ideologie. Un amico qualche giorno fa raccontava lo strano destino di Von Hayek. È stato indicato come monatto della crisi da vivo e da morto. Nel 1929 fu Rostow a dire: tutta colpa di Hayek e di Mises. Quest’anno Samuelson ha puntato l’indice su Friedman e, tanto per non sbagliare, e ancora su di lui, il viennese maledetto. Quando le cose vanno male certa gente sa sempre dove bussare. Ma non è solo colpa loro. Un po’ i liberali se la cercano. Quando c’è da fare muro, da sostenere la forza di un’idea, loro si rifugiano in ordine sparso, ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi, come direbbe Vasco Rossi. Allora, dite, in quale convento siete finiti? Antiseri è quasi un padre, eppure di questi tempi è così disilluso e avvilito che fatica a parlare. Ricossa vive di arte, musica, bellezza e solitudine. Pera dialoga solo con Dio. Martino sogna di fare il suo mestiere, ma il dicastero dell’economia era out con il bel tempo, figurati ora che c’è crisi. Quagliariello è un po’ più vecchio e indossa la toga dei senatori. Panebianco fa prediche inutili sul Corsera e si consola leggendo ancora Einaudi. Ideazione, luogo d’incontro degli ultimi liberali, vive solo on line. Tutti quanti sanno che la cultura liberale di massa è una favola a cui credono solo i piccoli imprenditori. Loro, almeno, sono rimasti sul fronte a combattere. Non c’è un giornale, una televisione, una rivista, un partito che sventoli la bandiera dell’orgoglio liberale. È questa la realtà, a destra come a sinistra. C’è qualche fondazione, come l’istituto Bruno Leoni e un paio di case editrici. Ma è una minoranza di simpatici incoscienti. La rivoluzione liberale è finita. Anzi, non è mai davvero iniziata.
Era il 1989 e quella data ora sembra quasi inutile. Non è colpa della storia, quella non si è fermata. È il silenzio di certe idee che preoccupa. Non serve girarci intorno. Quasi vent’anni dopo, come in un brutto romanzo di Dumas, possiamo dire che i liberali sono rimasti ancora una volta soli, quattro gatti e neppure una cabina telefonica, anche quelle sono scomparse. Tutti parlano della crisi, di questa sorta di nuovo ’29 che ci sta addosso, sulla pelle, come una sciagura, come una profezia, come qualcosa di reale che ti sbriciola le tasche. Dicono che la colpa è del capitalismo. Dicono che il mercato è senza cuore e senza morale. Meglio morire democristiani o comunisti. Meglio lo Stato, che scava buche e poi le riempie, che spende e spande. Dicono tutto questo e puzzano di nostalgia.
Voi, invece, zitti. Alla fine degli anni ’80 ancora insegnavate all’università. Eravate pochi. Quando in Italia si regalavano pensioni e Berlinguer alzava il muro della questione morale, voi raccontavate a un po’ di allievi cos’era la libertà. Vi ricordate? Von Mises e Von Hayek, Popper e Tocqueville, Einaudi e Rosmini, e poi perfino Rothbard, lì dove lo Stato diventa niente, un nemico da abbattere. Sì, eravate quasi anarchici. Il fascino del liberalismo è nella sua etica. Il liberalismo crede nell’uomo, nella voglia di rischiare, di elevarsi, di fare sempre un passo in più oltre la miseria dell’anima, oltre la mediocrità. Il liberalismo crede nella libertà, quella dell’individuo. Non crede a chi promette facile paradisi in terra. Non crede a chi parla di masse, classi, fedi, razze, stati, nazioni. Queste cose grandi sono un Leviatano che ti schiaccia, potenze metafisiche che strappano all’individuo i suoi diritti naturali. Sono il grande inganno del Novecento. Ecco, il liberalismo era una via di fuga contro le facili utopie, quelle a cui si aggrappa la gente quando ha paura. Era un modo per dire all’uomo, credi in te stesso. Scegli e giocati la vita. E soprattutto difendi la tua libertà, e quella di tutti i singoli individui, contro Dio e la ragione.
C’è stato un momento in cui la coccarda liberale era la parola d’ordine per il futuro. Il popolo degli ex si era riciclato. Tutti liberali, tutti a parlare di mercato e libertà. Tutti in fuga dal Novecento. Liberali in camicia nera, liberali in cachemire, liberali atei e devoti, liberali con il cilicio, liberali con la foto di Berlinguer sulla scrivania, liberali con la t-shirt del Che, liberali con l’edizione consumata del libretto rosso di Mao, liberali con il garofano, liberali con una lista di clientele grande come una provincia, liberali alle partecipazioni statali, liberali con lo scudo crociato, la falce e martello, la margherita, il sol dell’avvenire, il saluto romano, l’edera, il compasso, i santini da baciare e da bruciare, la maglietta della Ddr del 1974, i rubli sovietici in busta paga, le scarpe nere della Cia. Alcuni, liberali con tutte queste cose insieme. Quest’orgia è durata una decina d’anni.
Ecco, il liberalismo è stata una moda di stagione. Gli orfani del Novecento hanno schiumato rabbia sorda e muta. Se c’è una cosa che post-fascisti, post-comunisti e post-democristiani odiano è il liberalismo. Un odio assoluto e totalitario. È questa la verità, cari maestri. Tutti questi odiano il liberalismo perché disprezzano l’uomo. Rileggetevi il monologo del Santo Inquisitore dei Fratelli Karamazov, quando dice: gli uomini non vogliono la libertà, ma il pane. La libertà, rimprovera il vecchio al Cristo muto, fa paura. Lui, l’inquisitore, è tornato. Voi fatevi sentire.

2.12.08

Il Riformista, martedì 2 dicembre 2008
a Chiamparino
Il duro niet della Lega
di Alessandro Da Rold

Mentre Walter Veltroni, in questi giorni a Madrid per il consiglio del Partito Socialista Europeo, si dice disponibile al Pd del nord («Sono assolutamente aperto perché ritengo che un coordinamento del nord possa essere utile») e Massimo D'Alema lo boccia («Esiste solo sui giornali»), in loco si discute animatamente sulla vecchia ma sempre attuale questione quella del rapporto tra il centrosinistra e le regioni settentrionali.
D'attualità in territori come il lombardo veneto, dove il centrosinistra registra sconfitte umilianti da più di quindici anni. Luoghi in cui la Lega Nord è il partito più vecchio, radicato, e ha ormai capito come cogliere (si vedano le ultime elezioni) la maggior parte dell'elettorato popolare e operaio. Se ne parlò l'anno scorso di Pd del nord, prima del discorso di Veltroni a Torino. «Poi al solito tutto è sfumato», hanno sottolineato spesso diversi commentatori lombardi del centrosinistra. Ora il segretario regionale Maurizio Martina confida in un rilancio. «Il confronto sul Partito Democratico al Nord non può finire ancora in un nulla di fatto come è spesso accaduto in passato - dice Martina -. Il Coordinamento delle Regioni del Nord può essere un laboratorio aperto di idee con cui incalzare la destra alla luce della fragilità delle sue risposte. Di certo sarà un lavoro utile al progetto nazionale dei Democratici. Se riusciremo a decretare l'avvio di questo progetto avremo fatto piu' di quanto non si è mosso in dieci anni di discussioni politologiche sul centrosinistra al nord». E se Sergio Cofferati definisce «sconcertante» l'apertura di Chiamparino alla Lega Nord, il Carroccio fa sapere di non avere bisogno di nessuno. «La Lega è forte - spiega il ministro dell'Interno Roberto Maroni - aumenta nei consensi, dunque non ha bisogno di nessuno, men che meno di un partito che non esiste». Pure nelle regioni settentrionali, però, esponenti del centrosinistra si definiscono scettici. E' il caso di Enrico Farinone, deputato del Pd eletto in Lombardia che chiede «più settentrione nel Pd, piuttosto che un Pd del nord». Infine il lombardo Pierluigi Mantini, deputato del Pd, proveniente dai Dl, chiede la testa del sindaco torinese: «Gli consiglio le dimissioni dal suo ruolo nel governo-ombra per evitare imbarazzanti e seri equivoci e per meglio condurre una legittima battaglia politica nel partito».
Il Riformista, martedì 2 dicembre 2008
Neosocialismo caritatevole. Il partito di Chiamparino
di Linda Lanzillotta

Quale rapporto deve esistere tra politica, istituzioni e poteri economici; e quale ruolo può avere il Partito democratico del Nord? Due temi essenziali affrontati da Chiamparino nell' intervista domenicale di Lucia Annunziata con tesi che meritano una discussione.
Il sindaco di Torino ha spiegato come il suo Comune sia "azionista" di riferimento della Compagnia di San Paolo (con buona pace della natura privatistica delle fondazioni bancarie, sancita dalla giurisprudenza costituzionale e dell'autonomia delle banche partecipate voluta dalla legge!), che la fusione tra San Paolo e Banca Intesa è stata da lui benedetta, ma che il piano industriale della nuova Banca deve essere conforme agli interessi della città di Torino (evidentemente anche quando questi non coincidessero con quelli del restante 91,4 per cento degli azionisti) e che dunque è normale che, anche se indirettamente, vi sia un'influenza del sindaco sulle strategie e sugli assetti manageriali della Banca. Ha inoltre anticipato che il dottor Iozzo, importante banchiere che rientrerà con ruoli di responsabilità nel gruppo San Paolo Intesa, andrà anche a presiedere una delle tante società del Comune di Torino che dovrà gestire operazioni finanziare e di valorizzazione immobiliare. E alla Annunziata che obiettava che forse, in questo modo, il sindaco ha un po' troppo le mani in pasta, ha replicato che le sue mani sono pulite (cosa di cui nessuno ovviamente dubita) e che gli effetti finanziari ed economici che il Comune ricaverà da tutte queste operazioni andranno a beneficio esclusivo dei cittadini torinesi.
Nessun dubbio sulla buona fede di Chiamparino. Ma siamo sicuri che il sistema di integrazione verticale tra politica, istituzioni, sistema bancario e soggetti economici che lui ci propone come chiave per lo sviluppo territoriale sia quello che corrisponde al progetto di modernizzazione che il Pd ha in mente? O questo modello contiene un'idea dirigistica dell'economia, un ruolo paternalistico dei poteri pubblici nei confronti degli attori economici; e implica una pervasività e forme di collateralismo tra politica ed economia, incompatibili con un'economia di mercato fondata su sistemi pubblici di regolazione e di controllo la cui forza e incisività dipende dalla loro assoluta autonomia?
E ancora: un modello di tal genere, aldilà delle qualità morali e della intelligenza degli uomini che pro tempore ricoprono ruoli istituzionali, non contiene in sé i germi di possibili drammatiche degenerazioni come quelle cui stiamo assistendo in molte amministrazioni locali governate anche dal centrosinistra? E non è proprio la distinzione e reciproca autonomia tra politica e istituzioni da una parte, e banche e imprese dall'altra, una delle idee fondanti del nuovo Pd e condizione per realizzare veri e profondi processi di liberalizzazione dell'economia e della società? Processi nei quali la responsabilità sociale dell'impresa e la finalizzazione dell'attività economica è rimessa alle autonome scelte degli operatori dentro un quadro chiaro di regolazione pubblica. Mentre il ruolo del pubblico sta nella creazione dei beni pubblici necessari alla competitività del sistema (pubblica amministrazione, infrastrutture, formazione, ricerca, reti).
Il modello di neosocialismo territoriale caritatevole proposto da Chiamparino sembra in fondo abbastanza vicino all'idea che, sull'altro fronte, ispira l'azione del Tremonti antimercatista, non a caso tanto amato dalla Lega. C'è quasi uno stesso modo di parlare alle società del Nord. Ma allora si tratta di capire se il Partito del Nord che Chiamparino ha in mente propone a questi territori modelli economici aperti, competitivi, attrattivi per nuovi soggetti economici, o sistemi chiusi nel territorio, verticalmente integrati e difficilmente penetrabili da attori economici che non siano cooptati dalla politica locale. Ancor prima che di alleanze e di candidature, sarebbe allora utile discutere di questo; e anche del fatto che una politica del Nord non può prescindere da una politica nazionale. E innanzi tutto da una politica per il Sud.Perché onestà intellettuale e politica vuole che si dica con chiarezza che la battaglia per il federalismo si vince al Nord ma si combatte al Sud: solo un nuovo modello di sviluppo per il Sud non più basato sulla spesa pubblica, insieme a un radicale rinnovamento della classe dirigente e del ceto politico meridionale, possono rendere concreta e realistica quella rivoluzione che sarà il passaggio dalla spesa storica ai costi standard. Diversamente il federalismo non potrebbe che risolversi in un disegno di separazione dei rispettivi destini. Ecco perché io credo che un Pd del Nord potrà essere credibile e competitivo, ma non subalterno alla Lega, certo esprimendo forti leadership del territorio, ma innanzitutto proponendo una visione nazionale innovativa e segnata da forte discontinuità culturale e politica.
La Stampa, sabato 22 novembre 2008
LE SPINE DI VELTRONI QUESTIONE SETTENTRIONALE
Un leader per il Pd del Nord
Il sindaco di Torino: dobbiamo organizzarci autonomamente da Roma
Intervista a Sergio Chiamparino

di Luigi La Spina

Il partito democratico è in pieno marasma. La sorda guerra di correnti intorno al solito dualismo Veltroni-D'Alema è esplosa clamorosamente sul «caso Villari». Ma anche la collocazione nel Parlamento europeo ha riacceso le polveri tra la componente cattolica e quella postcomunista. Di fronte al rischio concreto della dissoluzione di un progetto che, a sinistra, aveva sollevato molte speranze, alcuni pensano che solo un congresso possa far superare questa crisi.

Domandiamo, allora, al ministro ombra per le riforme istituzionali, il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, se anche lui ritiene che questa proposta sia utile a superare i contrasti.
«Non credo. Servirebbe solo a fotografare la situazione esistente e, finito il congresso, tutto continuerebbe come prima. Le correnti e le sottocorrenti sono preesistenti a quella fusione ''tiepida” che ha unito ds e Margherita. Ho l'impressione che gran parte dei capi di queste correnti abbiano partecipato alla nascita del nuovo partito più con l'obiettivo di creare un contenitore che garantisse l'autoriproduzione di quelle componenti che non per cercare di costruire davvero un soggetto unico. Non ci sono diversi progetti politici, alternativi tra loro, ma ci sono divisioni fondate su rivalità personali, lotte di potere interne al partito». Allora, se un congresso non serve, come potete uscire da questa situazione? Lei ha una proposta?
«Sì. Io trasformerei l'attuale federazione di correnti in una federazione dei territori. Devo fare un'autocritica: mi rammarico di essermi fermato, quando ci furono le primarie, ad organizzare, con altri amici, una lista a favore di Veltroni con caratteristiche territoriali. Ora, se fossi al posto del segretario, farei io qualcosa per stimolare che questo nasca. Per esempio, partendo dal Nord, dove questo tema è più sentito e dove la sfida del partito territoriale esistente, cioè la Lega, è più forte».
Mi faccia capire, lei vuole fondare il partito democratico del Nord?
«Nella prossima primavera, abbiamo le elezioni europee, ma abbiamo anche alcune elezioni locali che, per certi aspetti, sono ancor più importanti per il nostro radicamento e per la continuità di certe esperienze di governo. Direi a Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto: ragazzi, mettetevi insieme, decidete voi un coordinatore che sia rispettoso delle rappresentanze nei vostri territori e decidete autonomamente alleanze politiche, programmi, candidati e leadership. Sarei io a spingere con forza nel senso di questa federazione dei territori».
Ma con chi dovrebbe allearsi il partito democratico del Nord? Con l'Udc e, cioè, con il centro o dovrebbe ritornare all'Unione?
«Io faccio un altro discorso. Ho l'impressione che organizzare una sommatoria di sigle rischi, per prima cosa, di non essere realizzabile e, poi, di non tradursi in una sommatoria di voti. Il Trentino lo dimostra: lì c'è stata un'originalità di rapporti. Il pd si è alleato con una lista territoriale che ha racchiuso tutta un'altra serie di sensibilità politiche».
Ma un progetto politico deve pur avere una direzione riconoscibile, non crede?
«Certo. In termini di progetto politico, è indubbio che la necessità di guardare verso il centro è forte, è quella prevalente. Le sfide politiche, è notorio, si vincono sottraendo voti al centro. Il problema è che il centro non sempre è moderato. Spesso è radicale, come quello della Lega, per esempio. Per vincere dobbiamo conquistare la vasta area che confluisce al centro dell'incrocio tra due assi: destra e sinistra, innovazione e conservazione. E questo non si ottiene sommando le attuali sigle di partito».
E allora, con chi?
«Sperimenterei, partendo dalle prossime elezioni, aggregazioni con una forte connotazione di rappresentanza territoriale e civica. Questa è l'unica condizione, facciamo l'esempio del Piemonte, per poter tenere insieme fasce di popolazioni, come quelle montane, e istanze sociali, come quelle legate alle fabbriche. Insomma, per mettere insieme rappresentanze diverse, come l'agricoltore cuneese e il cassintegrato della Bertone. Unire sensibilità diverse, come l'attenzione ai valori del mondo cristiano e la difesa della laicità dello Stato».
Queste non erano le ragioni fondative dell'Ulivo?
«Sì, si potrebbe anche parlare di un rilancio di quell'idea. Ma con questa forte specificazione territoriale. Non lo chiamerei più l'Ulivo, perché i nomi connotano un'esperienza, e quell'esperienza è finita. Ci vuole una scommessa nuova, che non punti alla sommatoria di sigle di partito, siano l'Udc o quelli della vecchia Unione».
Ma basta la territorialità per fare un partito? Questa non è la morte della politica, almeno come l'abbiamo sempre pensata: condivisone di ideologie o almeno di valori, di progetti ideali?
«Certo. Il territorio è condizione necessaria, ma non sufficiente. Il partito territoriale, me ne rendo conto benissimo, è la risorsa, ma anche il limite. Non essendoci sistemi di valori tali da esprimere un progetto politico credibile, che risponda alle aspirazioni di tutto il Paese, il territorio è l'unico punto di partenza per cercare di ricostruire questo insieme di valori e di messaggi programmatici, stando in mezzo ai problemi. È l'inizio di un cammino, ma sicuramente non ci si può fermare lì».

24.11.08

La Repubblica, lunedì 24 novembre 2008
Se in Italia i giovani leoni non hanno i denti
di Giuseppe D’Avanzo

Un indizio di conflitto generazionale fa capolino con il gonfiarsi dell´Onda studentesca - e speriamo che non sia fittizio, che duri e nel tempo si rafforzi. Finalmente, una forma di resistenza individuale e collettiva a un modello normalizzato che riconosce soltanto incertezza e precarietà alle giovani generazioni non protette dalla famiglia, dalle relazioni amicali, dalle connessioni di interesse. Un pregio della falsa «riforma Gelmini» è innegabile: ha costretto molti giovani ad aprire gli occhi su quel che li aspetta: precarietà prolungata; mediocri e intermittenti guadagni; incertezza nel reddito; insicurezza sulla continuità del lavoro; assenza di sostegno pubblico; impossibilità a programmare una vita consapevole (unione, nascita di figli, mobilità). I giovani sono come congelati in una dimensione di adulti immaturi, privati di opportunità e autonomia; imprigionati in un modello sociale e produttivo che non sa riconoscere la qualità e non premia il merito.
Al più, quando va bene (e va bene ai soliti noti), il «modello italiano» concede l´attenzione di una di quelle consorterie - Pierluigi Celli le chiama più esplicitamente «bande» - che «accreditano competenze, contrattano alleanze, tassano ogni forma di collocamento».
A fronte di questo dramma e dell´accenno di conflitto sociale che si può intravedere, il dibattito sull´esclusione dei «giovani» dalla leadership politica di una «Repubblica della Terza Età» è una lagna soporifera. È un piagnisteo che trascura una realtà molto più contraddittoria del diffuso luogo comune del «Paese dove il tempo si è fermato». È gne-gne che occulta un´autentica questione che interpella non tutto il Paese né tutto il ceto politico. Ma soprattutto l´università e la sinistra riformista (o il centrosinistra, chiamatelo come volete). Per almeno quattro ragioni.
Dunque, una giovane classe politica sarebbe tenuta fuori dalla porta delle stanze che contano. Primo argomento: sono davvero giovani?
Quei «giovani» che chiedono attenzione e pretendono, come un atto dovuto, accesso al potere, alle élites, alla classe dirigente, sono falsi giovani, ingrigiti, maturi, diciamo già un po´ spelacchiati. Come spiega Francesco Billari (il Mulino, 5/2007), le Nazioni Unite quando progettano azioni dedicate allo youth empowerment (più potere ai giovani) definiscono giovanile l´età che corre tra i 15 e i 24 anni e chiamano addirittura «giovani adulti» quelli che hanno tra i 20 e i 24 anni.
Anche la Commissione Europea considera «gioventù, l´età della vita che va dai 15 ai 25 anni». È dunque una bizzarra anomalia italiana considerare «giovane» chi è nato dopo il 1968 e magari ha già festeggiato i quarant´anni. Non è peraltro una anomalia del presente (secondo argomento). Alberto Alesina ha ricordato che, quando nel 1984 Franco Modigliani vinse il premio Nobel per l´economia, gli studenti italiani di economia di Harvard e del Mit lo invitarono a cena in un ristorante toscano di Boston. Modigliani raccontò che all´età di 52 anni, durante un seminario in Italia, fu presentato come «un brillante giovane economista» e lui replicò, quando prese la parola: «Grazie per il "giovane", ma negli Stati Uniti mi considerano un po´ passé».L´anomalia quindi non è nuova in Italia. Di nuovo, al contrario, c´è (terzo argomento, alquanto sorprendente) il tentativo di svecchiare élite politiche e ceti dirigenti. È vero, Berlusconi è in là con gli anni (72 anni) e lo separano più o meno due decenni da Sarkozy (53 anni), Merkel (54), Zapatero (48), Brown (57), però è altrettanto vero che, se si guarda ai cinque ministeri chiave, Economia (Tremonti, 61 anni), Interni (Maroni, 53), Esteri (Frattini, 51), Giustizia (Alfano, 38) e Difesa (La Russa, 61), la media è di 52 anni (era di 63 nel governo Prodi). Se poi si sbirciano i dati raccolti da Marco Leonardi (economista, Statale di Milano), si scopre che in Italia la giovane età non è un deficit nemmeno per gli amministratori delegati delle 200 aziende quotate in Borsa a Milano. Età media, 52,6. Nelle 4049 aziende quotate a Wall Street, l´età media dei chief executive officer (CEO) è più alta, anche se di mezza incollatura: 53 anni. Semmai i problemi sono tutti nella gerontocratica università italiana. Tra gli oltre 18mila cattedratici, solo 9 hanno meno di 35 anni e tre su dieci ne hanno più di 65, hanno contato Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Epperò lo svecchiamento degli ultimi anni con il proliferare di corsi di laurea e di sedi universitarie, con l´aumento del 100 per cento dei professori ordinari (ma alcuni parlano del 150 per cento) non ha migliorato la qualità né della ricerca né dell´insegnamento. Non basta essere giovani per cambiare in meglio l´esistente. Di sicuro non nell´università italiana.
A ben guardare, la politica se la passa meglio. Sei governatori hanno meno di 50 anni e l´età media è di 53 anni. Alla Camera l´età media degli eletti è di 50 anni e al Senato di 54 (senza i senatori a vita): una spanna meglio del Congresso americano dove, ricorda Leonardi, dal 1996 l´età media degli eletti è di 51 anni e al Senato di 58. In questo orizzonte, si dimentica sempre (colpevolmente, ottusamente) la rivoluzione della Lega. Il più "antico" partito del Parlamento italiano è la forza politica che, nell´ultimo decennio, ha governato un quarto del Paese creando, come ha osservato Andrea Romano, una classe dirigente «giovane e competente». Il 77 per cento degli eletti in Parlamento del Carroccio ha un´età che oscilla tra i 29 e i 49 anni (fonte, la voce.info) e la gran parte dei duecento sindaci leghisti sono quarantenni. I casi di Federico Bricolo (41 anni), già eletto nel 2001 (a 34), o dell´ex assessore del Veneto Francesca Martini (46 anni, già eletta alla Camera nel 2001 a 39) o di Matteo Bragantini (32) non sono eccezioni nel gruppo parlamentare più giovane della legislatura, età media 44 anni. È una classe dirigente cresciuta all´ombra della vecchia guardia padana, secessionista e folklorica, ma oggi pragmatica custode delle attese e le ambizioni di un elettorato che conosce come la sua famiglia e di un territorio che abita come la propria casa. È un´élite consapevole che debba essere la Lega «il motore riformatore del governo».
Silvio Berlusconi, si sa, non ha bisogno di una classe dirigente. Basta a se stesso. Come ha scritto Alberto Asor Rosa su questo giornale, il nostro carismatico premier «è un grande distruttore di élite: dove lui passa, non c´è straccio di classe dirigente che resista». Si sente Napoleone III o forse - meglio - Luigi XIV. Per governare gli è sufficiente un Richelieu (Gianni Letta, 73 anni), un Colbert (Tremonti) e, per antica abitudine, un avvocato (Niccolò Ghedini, 49). Per il resto, il sovrano si circonda di cortigiani sorridenti, fantaccini ostinati, belle e giovani signore e di un corteo di «vogatori, cruciferi, flabellieri, turiferari, toreadori», intercambiabili e ininfluenti come un Daniele Capezzone (36 anni). Da questo punto di vista, le rogne di un ricambio generazionale sono tutte allora del Partito Democratico, partito nuovo che si lascia alla spalle il suo solo leader vincente (Romano Prodi, 69 anni). Il PD, attor giovane del sistema politico italiano, dovrebbe essere più sensibile a liberarsi dell´autarchia generazionale e, a parole, è così.
Altri sono i fatti. Tra gli eletti del Pd gli under 40 (dunque, i giovani autentici) sono appena il 13 per cento e, se si allarga la forbice ai 49 anni, si arriva soltanto al 43 per cento (34 per cento in meno rispetto alla Lega, il partito - ripeto - più «antico»). Un risultato assai modesto, anche se il PD è riuscito ad abbassare in questa legislatura la media dei suoi eletti da 54 a 49 anni, un anno in meno del Partito della Libertà (50). Se poi si guarda ai criteri di selezione o alla qualità di questa presenza giovanile, la luna diventa nera. Al contrario dei volti nuovi della Lega, non si scorge nessun radicamento nel territorio, nessun legame con la società. Paiono decisive cooptazione, fedeltà senza discussione, buona presenza mediatica.
L´avventura politica di Marianna Madia ne è il prototipo più esplicito. Ventotto anni, scelta addirittura come capolista a Roma, presentata come «economista» tra le perplessità degli economisti, avventurosamente si presentò così: «Metto al servizio del Paese la mia incompetenza». Merito, competizione e senso di responsabilità non orientano i comportamenti e le scelte di chi governa il Partito Democratico né sollecitano quei giovani che chiedono di governarlo o almeno di contare di più, di avere più spazio e potere. Chi, con la giovane età, una competenza può vantarla come Irene Tinagli (34 anni, ricercatrice presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh) se ne va già disillusa («Ero stata contattata per le mie competenze tecniche, in un anno di PD non sono stata consultata nemmeno per un parere»). Nella convinzione che l´azione politica si svolga tutta all´interno dello spazio mediale, ha nel PD più visibilità un demi-monde mediatico, blogger come Luca Sofri (44 anni), Diego Bianchi (38), Mario Adinolfi (37). Competenze? Pochine. Luca Sofri lo ha ammesso con onestà durante i lavori di una direzione (è tra le venti personalità indicate da Walter Veltroni). Sofri disse a brutto muso: «Sono qui a discutere come affrontare il secondo decennio del Duemila le stesse persone che non hanno saputo affrontare il primo e che erano qui nel millennio precedente» per poi concludere: «. Non pretendo di spiegare a persone molto più esperte e competenti di me quali contenuti dare al presente e al futuro del Partito Democratico. Non sto parlando di contenuti e non sarei all´altezza di discussioni molto approfondite ed elaborate». Chapeau!
Ho l´impressione che, in assenza di competenze, i giovani che vogliono fare del PD, come scrivono nel loro blog (Uccidere il padre), «un partito moderno, democratico, laico e di sinistra» (e capirai che puntuta e illuminante freschezza), chiedono soltanto di togliersi dai margini, di farsi benedire e riconoscere sventolando appartenenza. È l´accorta pulsione, temo, che può spiegare la rimozione in quel partito di ogni conflitto politico per mano dei più giovani.
È il quarto e ultimo argomento: se si guardano i numeri, la politica italiana non è priva di giovani. Anzi, è giovane. Il suo deficit è un altro.
Se si guarda al PD, è ossessionata dall´obbedienza, disinteressata alle competenze spendibili liberamente. È dominata dalla prudente ragione del primum vivere che orienta da sempre i maturi di ogni partito e ora anche gli acerbi dell´ultimo partito nato. E´ una politica che non conosce il conflitto.
Il conflitto vero sulle questioni reali (non le cerimonie mediatiche) è, al contrario, sempre salutare e necessario se un corpo sociale, qualche che sia, non vuole sclerotizzarsi e conservare vitalità e dinamismo. E´ il conflitto il grande assente nel parolaio del discorso politico giovanilistico. Dove comme il faut si fa un gran parlare di Barack Obama (chi sarà il nostro Obama? dove troveremo il nostro Obama?).
Si dimentica che il nuovo presidente americano ha sconfitto in campo aperto, al termine di una lunga e dura battaglia, Stato per Stato, elettore per elettore, due micidiali clan politici (Bush e Clinton) che hanno governato gli Stati Uniti negli ultimi venti anni. Lo ha fatto in splendida solitudine ché, in avvio, ha dovuto fare a meno anche dell´appoggio della macchina elettorale afroamericana di Al Sharpton e Jesse Jackson che lo guardavano con freddezza. Ce l´ha fatta non perché è su Facebook (anche), ma perché (innanzitutto) ha un´idea della natura della crisi degli Stati Uniti e un programma per affrontarla. È apparso autorevole, credibile, responsabile, capace di stringere forti legami sociali, di radicarsi nel Paese e tra la sua gente perché la sua intelligenza delle cose è maturata a contatto con la realtà in cui vive e si muove un popolo in carne e ossa e non nel mondo frammentato dell´immagine, dei consumi, delle mode, dello spettacolo dove abitano soltanto figurine di cartone.
Se prendere atto delle metamorfosi non significa condividerle, si può dire - e non è una provocazione - che la declinazione della politica di Obama ha più a che fare con la giovane classe dirigente della Lega che non con i giovani leoni senza denti del Partito Democratico. Converrà allora che quei giovani si diano da fare. Riscoprano il conflitto. Comincino a pretendere regole certe per le primarie, come propone da tempo Tito Boeri. Pretendano il ritorno al voto di preferenza. Esigano che l´età di elettorato attivo e passivo coincida, come in Germania, Svezia, Spagna. Diano battaglia. Soltanto con un conflitto aperto di ideali, progetti, analisi, competenze, soltanto con un conflitto leale nella raccolta del consenso, quindi nella misura di un concreto radicamento sociale, si potrà coltivare la speranza di un nuovo riformismo, la convinzione di potercela fare a cambiare l´Italia, a fermarne il declino e la deriva autoritaria. Altra ambizione non può esserci e, se c´è, non è soltanto mediocre. È perdente e, peggio, noiosa come un´impotente lagna.

19.11.08

La Repubblica, mercoledì 19 novembre 2008
E' il momento di cambiare. Noi, costretti a regalare il cervello all' estero
di Renato Dulbecco


Ho lasciato il mio Paese nel 1947, a soli 33 anni, per gli Stati Uniti, per poter sviluppare le ricerche scientifiche che mi hanno fatto meritare il Premio Nobel per la Medicina, molti anni dopo, nel ' 75. Oggi mi fa male vedere che, dopo oltre 60 anni, la situazione di crisi della ricerca scientifica in Italia non è cambiata, anzi. Lo dimostrano i più di mille ricercatori italiani sparsi per il mondo che hanno già riposto all' appello di questo giornale e che hanno dovuto, come me, lasciare il Paese per dedicarsi alla scienza. Il mio rammarico non è una questione di nazionalismo: la scienza per sua natura ignora il concetto di Patria, perché è e deve rimanere universale. Anzi, penso sia importante per uno scienziato formarsi all' estero e studiare in una comunità internazionale. Tuttavia dovrebbe anche poter scegliere dove sviluppare le sue idee e i frutti del suo studio, senza dover escludere del tutto il Paese dove è nato. Ciò che mi dispiace profondamente è toccare con mano l' immobilismo di un' Italia che sembra non curarsi della ricerca scientifica, esattamente come nel dopoguerra.
Come se più di mezzo secolo di esplosione del progresso scientifico fosse passato invano. Chi vuole fare ricerca se ne va, oggi come ieri, per gli stessi motivi. Perché non c' è sbocco di carriere, perché non ci sono stipendi adeguati, né ci sono fondi per ricerche e le porte degli (ottimi) centri di ricerca sono sbarrate perché manca, oltre ai finanziamenti, l' organizzazione per accogliere nuovi gruppi e sviluppare nuove idee. Perché non esiste in Italia la cultura della scienza, intesa come tendenza all' innovazione che qui, negli Stati Uniti, è privilegiata in ogni senso ed è il motore del cambiamento.
Ciò che è cambiato concretamente, rispetto ai miei tempi, è che la ricerca scientifica, spinta dalla conoscenza genomica che è stata al centro del miei studi e oggi rappresenta il futuro, richiede molti più investimenti in denaro e persone rispetto a 60 anni fa. Si allungano così le distanze fra Paesi che investono e quelli che non lo fanno. L' Italia rischia, molto più che negli anni Cinquanta, di rimanere esclusa definitivamente dal gruppo di Paesi che concorrono al progresso scientifico e civile.
Io sono uno scienziato e non ho la ricetta per salvare la ricerca italiana, ma proprio come "emigrato della ricerca " posso dire che i modelli ci sono, anche vicini ai nostri confini, senza guardare agli Stati Uniti, che sicuramente hanno una cultura e una storia molto diversa dalla nostra. Basterebbe iniziare a riflettere dal dato più semplice. Un Paese che investe lo 0,9% del proprio prodotto interno lordo in ricerca, contro la media del 2% degli altri, non può essere scientificamente competitivo né attirare a sé o trattenere i suoi ricercatori migliori.

15.11.08

La Repubblica, sabato 15 novembre 2008
Politica nell' angolo tutto il potere è dell' economia
di Luciano Gallino

Allo scopo di rinnovare la classe politica sarebbe necessario rinnovare anzitutto il terreno al quale la politica si applica. Negli ultimi decenni tale terreno si è contratto, mentre i suoi contenuti divenivano estranei all' agire politico in generale, sia dei cittadini che dei loro eletti. In Italia è intervenuta come in altri paesi una nuova "grande trasformazione", nel senso che Karl Polanyi vi dava più di sessant' anni fa. L' economia è esondata. E' uscita dal suo alveo di strumento indispensabile per la sussistenza umana imponendosi alla società come fine ultimo. La società è stata così trasformata in accessorio dell' economia. Da qui deriva la sterilità della politica: se il terreno su cui si applica è occupato per intero da problemi come i decimi di punto del Pil, la competività, il debito pubblico, l' andamento delle borse, lo stato di salute delle banche, i politici vengono trasformati in amministratori. Prendono nota delle grandezze economiche in gioco, e provano a farle quadrare manipolando quelle poche variabili sui cui credono di poter incidere. Da parte loro i cittadini sono declassati a incompetenti che non hanno alcun titolo per intervenire nella cosa pubblica. L' economia posta al disopra della società richiede tecnici, esperti, sapienti, periti, tutti dotati di competenze superiori. I politici stessi assumono direttamente questi ruoli, o reclutano il personale adatto dall' esterno. L' eliminazione delle preferenze dalle liste elettorali è solo uno dei segni che attestano la superfluità dei cittadini.
Lo svuotamento del terreno della politica è specialmente evidente nella privatizzazione dei beni pubblici condotta in larga parte dalla destra con l' assenso del centrosinistra. La privatizzazione è ben più di una mera ideologia economica, ha scritto un noto politologo, Benjamin Barber. "Fraintende il concetto di libertà e in tal modo distorce quel che intendiamo per libertà civica e cittadinanza, spesso ignorando e talvolta scardinando il significato stesso di beni pubblici e di pubblica prosperità". I beni pubblici dovrebbero essere il terreno di elezione della partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica. Escluderli da esso mediante le privatizzazioni erode tanto la libertà quanto la democrazia.
Una classe politica rinnovata dovrebbe avere tra i suoi primi scopi l' allargamento della partecipazione dei cittadini, insieme con il rientro dell' economia nel suo alveo di strumento di cui la società decide gli impieghi, piuttosto che subirla come una padrona. Conosciamo bene l' obiezione. Al tempo in cui l' economia mondiale rischia di crollare, occorrono drastici rimedi economici, che i cittadini debbono accettare. Se non fosse che qui siamo dinanzi a un rovesciamento del rapporto tra cause ed effetti. E' stata l' abdicazione della politica, il porsi diligentemente al servizio dell' economia, che ha prodotto i disastri economici cui stiamo assistendo. Sono le leggi che la politica ha varato, in una con la sua assenza di scopi da porre all' economia: produrre tramite il lavoro più sicurezza umana piuttosto che insicurezza, ridurre gli abissi delle diseguaglianze, estendere la fruizione dei beni pubblici al maggior numero.
Questi stessi disastri offrono una grande occasione: quella di una ri-trasformazione dei rapporti tra economia e società in forza della politica. Ma non è immaginabile che prima si rinnovi la classe e dopo il terreno della politica. Occorre prima rinnovare questo, allargando gli spazi di partecipazione dei cittadini a tutti i livelli. Cominciando con l' invertire il processo di privatizzazione dei beni pubblici. Aprendo all' elettorato, a livello comunale, regionale e nazionale, i consigli dove si decide la gestione di questi. Provando a ragionare di politiche economiche e sociali fondandosi non solo sul Pil, ma anche su indicatori come lo Sviluppo Umano dell' Onu. E perché no, chiedendo ai media di spiegare senza ambiguità le origini politiche della cosiddetta crisi finanziaria.

14.11.08

La Repubblica, venerdì 14 novembre
Pochi, lenti e in ritardo i tre handicap dei giovani
di Massimo Livi Bacci

Pochi, lenti e tardi: in tre parole si potrebbe sintetizzare la sorte dei giovani italiani in questa prima parte del secolo. Pochi, per la parsimonia riproduttiva dei loro genitori; oggi toccano i vent' anni 600.000 ragazze e ragazzi, ma nel 1990 erano 900.000. Lenti: perché lenta è la transizione verso lo stato adulto e l' autonomia economica; più lenta rispetto sia alle generazioni precedenti sia agli altri paesi europei, inclusi quelli mediterranei culturalmente più vicini. Tardi, perché tardivo è l' approdo a quelle attività, carriere o professioni che «contano» o che, più modestamente, hanno una qualche incidenza nella vita economica, sociale e di relazione. Questa triade definitoria non è frutto di osservazioni superficiali, ma si basa su fatti e dati precisi che non lasciano adito a dubbi e dei quali è opportuno dare qualche saggio. Sul «pochi» si è detto, c' è solo da aggiungere che i giovani diventeranno meno numerosi nei prossimi anni, nonostante il soccorso degli immigrati. Sul «lenti» esiste una vastissima documentazione che prova come per percorrere le tappe per raggiungere l' autonomia adulta - formazione e studio, indipendenza abitativa, lavoro e reddito, unione e scelte riproduttive - ci voglia assai più tempo che in passato. L' intero ciclo universitario (il 3+2) viene terminato verso i 27 anni, diversi anni in più rispetto ad altri paesi europei; i tassi di attività tra i 20 e i 30 anni sono fortemente diminuiti nell' ultimo ventennio - a riprova che si entra nel mondo del lavoro sempre più tardi - e si è allargato il divario con i maggiori paesi; vent' anni fa tre giovani (donne e uomini) ogni dieci vivevano con i genitori, contro sei su dieci oggi; l' età media delle madri alla nascita di un figlio sfiora 31 anni, tre o quattro anni in più rispetto alla generazione precedente.
Il «tardi» è, naturalmente, la conseguenza del «lenti»: è la causa diretta del fatto che i giovani «che contano» si siano rarefatti assai più di quanto non sarebbe giustificato dal loro calo numerico. Qualche prova? C' è ampia scelta: si accede alle professioni più tardi, e un avvocato trentenne è per lo più senza reddito, mentre il suo omologo inglese o francese può sostenerci modestamente una famiglia; si vince il concorso in magistratura (una vera e propria élite) a 31 anni contro 28 verso il 1980; così è per i nuovi notai, anch' essi assai più vecchi che in passato. Nell' università si è detto e ridetto: il peso dei docenti giovani (con meno di 35 anni) si è dimezzato tra il 1985 e oggi, e non diversa è la situazione negli istituti di ricerca pubblici. Ma anche gli animal spirits imprenditoriali sono invecchiati: secondo la Cerved, tra le nuove imprese individuali, l' incidenza di quelle guidate da giovani si è ridotta dal 54 al 41 per cento tra il 2000 e il 2007, e la riduzione sarebbe stata assai più netta se non fosse stata frenata dalla forte crescita di giovani imprenditori stranieri. In politica, l' astensionismo elettorale dei giovani tra i 20 e i 25 anni è raddoppiato tra il 1994 e il 2006 e i giovani che hanno peso nelle gerarchie vanno cercati col lanternino.
Aggiungiamo anche che il corpo sociale - che è molto più malleabile delle istituzioni - ha generato i suoi anticorpi e i suoi anestetici oppiacei, ad evitare che la perdita di prerogative da parte dei giovani risultasse troppo dolorosa. Così è per il lungo parcheggio nell' università, considerato normale da famiglie e istituzioni; così è per le lunghe relazioni che precedono una unione e l' assunzione di responsabilità; così è per la lunga permanenza nella casa dei genitori; così è per lo scarso reddito da lavoro dei giovani. E anche il linguaggio si adatta: nel nostro ordinamento si può essere apprendisti (il ragazzo di bottega di un tempo...) fino a trent' anni; appartenere ai «giovani» industriali (generalmente figli di imprenditori) fino a 40; essere considerati troppo giovani per accedere ad una élite accademica a 50. Chiamiamo ragazza o ragazzo anche chi si è bene assestato nella mezza età.
I rimedi non possono essere affidati a «politiche giovanili» di marginale cosmetica. E' il funzionamento dell' intera società - quello che può essere modificato dalle politiche - che deve essere rivisto. La formazione deve essere più intensa e cadenzata, responsabilizzando giovani e famiglie; gli istituti contrattuali debbono adattarsi per consentire l' accesso al lavoro dei più giovani; le esperienze internazionali debbono moltiplicarsi (ben venga un Erasmus universale); l' autonomia di vita deve essere favorita (politica edilizia dell' affitto, delle residenze studentesche); l' imprenditorialità e l' inventiva vanno sostenute. Si tratta di politiche impegnative e costose - ma con ritorni assai cospicui: se i giovani in Italia fossero presenti al lavoro come altrove in Europa, avremmo tra 1 e 2 milioni di occupati in più (e un Pil del 4-8% più alto).
Poca fiducia avrei nelle «quote giovani». Le «quote» sono forse giustificabili quando il normale funzionamento della società non sia capace di superare storici ritardi e qualora una sferzata possa provocare uno choc risolutivo. Nel caso delle donne in politica si può argomentare che dopo sessant' anni di suffragio universale e di vita democratica, la loro presenza in Parlamento è ancora scarsissima e che l' attività legislativa ha tutto da guadagnare dalla loro equilibrata partecipazione. Nel caso dei giovani, però, è certo che la restituzione delle prerogative perdute e di un adeguato spazio di azione potrebbe avvenire con le normali e per nulla eccezionali politiche che sono alla portata di qualsiasi governo che le voglia intraprendere
.

13.11.08

La Repubblica, giovedì 13 novembre 2008
Diamo il voto ai sedicenni
di Ilvo Diamanti

Il sogno americano, interpretato da Obama, a molti italiani evoca, soprattutto, la possibilità e la capacità di cambiare. Perché Barack Obama è giovane e di colore. Parte di una minoranza, fino ad oggi esclusa dal potere. In più: non ha alle spalle una carriera politica lunga. Non fa parte delle oligarchie familiari che contano, fra i repubblicani e i democratici. La voglia di cambiare, cioè, ha spinto una grande quota di cittadini americani - anche "bianchi" - a scegliere (in larga maggioranza) un presidente meno condizionato da interessi ed eredità sociali, generazionali, familiari. Evidente la frattura rispetto all' Italia.
D' altronde, in nessun altro luogo in Europa l' incapacità di cambiare e di innovare la classe dirigente è altrettanto evidente che in Italia.
In Spagna: in trent' anni di democrazia si sono succedute quattro leadership.
In Francia, nel corso della V Repubblica, si è passati dal gollismo al mitterrandismo fino al sarkozysmo. Il cui interprete, Nicolas Sarkozy, non proviene dalle Grandes Ecoles; ed è, inoltre, di origine straniera (ungherese, per la precisione). Ma lo stesso vale per la Germania (passata, in vent' anni, da Kohl a Schroeder fino ad Angela Merkel) e per l' Inghilterra (dalla Thatcher a Mayor; e da Blair a Gordon Brown). Nell' Italia repubblicana, invece, i cambiamenti sono avvenuti in modo sporadico, per strappi e rivoluzioni. La generazione politica che ha costruito la democrazia e ricostruito l' economia e la società italiana era, prevalentemente, "giovane" all' indomani della guerra, nella fase costituente. Un po' meno, cinquant' anni dopo, quando, in buona parte, guidava ancora il sistema politico e le istituzioni.
Il Sessantotto, in realtà, non ha prodotto fratture determinanti nella classe dirigente dei partiti maggiori. Neppure a sinistra. Ne ha, semmai, accelerato la crisi. Perché si verificasse un cambiamento profondo si è dovuto attendere la fine della Prima Repubblica, nei primi anni Novanta. Appunto: una "rivoluzione". La caduta del "nostro" muro. Tuttavia, dal punto di vista dei soggetti politici e della leadership, le novità più rilevanti sono emerse a Destra. O, comunque, da settori antipolitici. Dalla Lega, anzitutto, la quale ha favorito l' accesso nel sistema politico e di governo di categorie divenute periferiche nei partiti di massa. Operai e lavoratori autonomi, giovani, "dilettanti" politici. In seguito, l' ha affiancata e sovrastata Silvio Berlusconi, che, con il suo "partito personale", ha occupato lo spazio lasciato vuoto dai partiti di governo. Berlusconi e Bossi: entrambi del Nord, entrambi "padroni" del loro partito, entrambi "nuovi" per linguaggio e stile di leadership. Politici impolitici e populisti. Maestri della personalizzazione: territoriale oppure mediatica. A sinistra, l' affermazione di Romano Prodi e dell' Ulivo è stata favorita dalla debolezza dei partiti tradizionali. Sopravvissuti allo sfascio del sistema. Ma sradicati dal punto di vista sociale e del territorio. E zavorrati dall' eredità politica del passato.
Più che imporsi, Prodi è apparso, allora, una reazione difensiva alla sfida di Berlusconi.
Quindici anni dopo, siamo sprofondati in un "regime oligarchico e personalizzato", che non lascia spazio al rinnovamento.
A destra, Berlusconi e Bossi sono saldamente in sella ai loro partiti. Intorno al Cavaliere: esperti, consulenti di fiducia, amici e amiche. Un modello "cortigiano". In cui la successione può avvenire solo per via dinastica. Il più tardi possibile, visto che il Sovrano prevede di mantenere lo scettro oltre il secolo di vita. A sinistra, Prodi è stato sostituito, alla guida, dai "ragazzi" della Figc e del Movimento Giovanile Dc degli anni 70 e 80. Le primarie hanno plebiscitato prima Prodi e poi Veltroni, senza vera competizione. Mentre a livello territoriale appaiono, molto spesso, regolate dal centro. Il loro esito: predeterminato. Insomma: non appaiono ambienti di lotta per la vita. Di selezione darwiniana. Dove possano emergere i migliori; in grado, per affermarsi, di "uccidere" padri e maestri.
Anche l'esperienza dei sindaci che, nei primi anni '90, aveva promosso un significativo rinnovamento della classe politica non ha trovato sbocchi in ambito nazionale (salvo che per i sindaci di Roma) ed è stato "normalizzato" in periferia.
Tutto ciò, d' altronde, riflette un vizio nazionale, che, negli anni, è degenerato. Siamo una società familista e vecchia. Vecchia e familista. E, inoltre, corporativa e localista. Immobile e chiusa. La politica, in fondo, ne riproduce ed enfatizza i limiti, come un gioco di specchi.
Un paese previdente si attrezzerebbe per superare in fretta questo problema, che sta producendo effetti devastanti.
Penserebbe, ad esempio, a favorire l'accesso nella politica e nelle istituzioni delle componenti "nuove"; delle "minoranze". Applicherebbe seriamente le quote "rosa", riservate alle donne. Ma introdurrebbe anche le quote "verdi", riservate ai giovani con meno di 35 anni. Abbasserebbe l' età del voto a 16 anni, anche alle politiche. E allargherebbe agli immigrati regolari il diritto di voto, alle amministrative e non solo. (Da noi, l' abbiamo già detto, Obama potrebbe, al massimo, ambire all' incarico di mediatore interculturale in qualche amministrazione di sinistra). Tuttavia, l' interesse comune contrasta con quello particolare. L' investimento nel futuro, anche immediato, è frenato dalle resistenze del passato. Per cui è difficile immaginare grandi mutamenti, senza nuovi strappi. Come nel '45, nel '68 e nel '92. Senza rivoluzioni, senza fratture e "ribellioni" è difficile che le donne e - a maggior ragione - i giovani divengano protagonisti. Per questo guardiamo con interesse alle mobilitazioni studentesche di queste settimane. Al là degli obiettivi espliciti, possono diventare occasioni importanti di "formazione politica". Esperienze utili all' affermazione di nuovi leader. Tuttavia, questi giovani, questi studenti, difficilmente riusciranno a diventare una "generazione politica" con il permesso e la compiacenza dei genitori e dei professori.

12.11.08

La Repubblica, mercoledì 12 novembre 2008
Il tempo lungo del Ricambio
di Nadia Urbinati

La vittoria di Barack Obama ha riaperto le ferite della sinistra italiana dimostrando una volta di più come sia misera la sua condizione: è più facile per un nero essere eletto alla Casa Bianca che per un partito riformista vincere le elezioni in Italia. Che cosa c' è che non va e perché l' Italia è così refrattaria al cambiamento in meglio e così irrimediabilmente conservatrice e facile al cambiamento in peggio? Che cosa ha portato Obama a vincere che può costituire un insegnamento per la sinistra italiana? Con tutta onestà penso che guardare in questo modo all' America di Obama, cercare nella vittoria di Obama una guida per la sinistra italiana, sottolinea una debolezza che è ancora più macroscopica di quella che la sconfitta dell' aprile scorso ha registrato.
Fare domande giuste può aiutare a dare risposte adeguate. Obama non può essere un modello per nessun paese che non sia l' America. Mai come in questo caso l' America si è confermata un' eccezione. Quanto tempo un francese dovrà aspettare per vedere un africano varcare la soglia dell' Eliseo o un italiano quella di Palazzo Chigi? Dunque, l' America non può essere imitata. Né vale accalappiarne gli slogan. Lo slogan "I can" dimostra il coraggio (tutto americano) di chi lo ha forgiato e voluto perché solo chi ha la consapevolezza della propria forza sa essere ragionevolmente responsabile da rischiar. Proviamo a immaginare il senso del ridicolo che quello slogan poteva gettare su Obama se egli fosse stato sconfitto. La vittoria di Obama può essere di un qualche aiuto solo se ci consente di vedere meglio i nostri problemi (i problemi del Partito democratico e in senso generale dell' opposizione). Il problema italiano è la mancanza di leadership. Leadership é una parola complessa. È un nome singolare-collettivo che è fatto di tante componenti: dalla formazione scolastica, alla struttura dei partiti, al sistema di selezione a tutti i livelli della società, all' ordine istituzionale e -ultimo, ma primo-al sistema etico e di valori. Tutto questo insieme compone la leadership di un paese democratico. Come si può intuire si tratta di una forma di vita e di società, non semplicemente di una qualche riforma o di ingegneria elettorale o accomodamenti a puzzle.
Il tempo di formazione e consolidamento delle classi politiche (delle quali la leadership è parte) è un tempo lungo. Anche se con le elezioni si possono cambiare i rappresentanti in tempi relativamente brevi, il pool da dove i possibili candidati emergono o si formano non é azzerato ad ogni elezione. La società politica (partiti e movimenti hanno bisogno di stabilità e continuità nel tempo). Questo mette in evidenza la tensione interna alle democrazie elettorali: ricambio periodico e in tempi brevi come norma del ciclo elettorale, ma riconferma dell' eletto per più di un mandato come regola di prudenza, anche perché per far sì che un politico renda conto agli elettori è almeno necessario che si ricandidi. In sostanza, il paradosso è che se si vuole che l' elezione svolga la sua funzione di incentivo-deterrenza sull' eletto non ci deve essere un ricambio continuo, con i rischi evidenti di formazione oligarchica (è su questo aspetto che i critici della democrazia hanno insistito sistematicamente per gettare discredito su questo sistema politico). Comunque sia, la classe politica democratica è a un tempo stabile ed esposta al mutamento.
Tuttavia, mutamenti troppo repentini e radicali sono un problema e dovrebbero essere un' eccezione. Ad insegnarcelo é proprio il caso italiano, perché i problemi che oggi ci attanagliano hanno avuto origine quando la classe dirigente nazionale (i suoi partiti moderati, soprattutto) è stata liquidata con il codice penale nello spazio di una manciata di mesi. Da allora, siamo alla ricerca di una classe politica, se non eccelsa almeno di valore meno mediocre di quella che abbiamo, e soprattutto meno corrotta. Per anni si é pensato che l' ingegneria elettorale potesse risolvere il problema e si é imboccata la strada assurda di cambiare sistema elettorale praticamente ad ogni legislatura, e a seconda dell' interesse della maggioranza di turno. Una stabile regolarità nel ricambio della leadership politica richiederebbe sistemi elettorali stabili. La stessa logica ha precipitato l' erosione del partito della sinistra. Il paradosso italiano potrebbe essere così sintetizzato: tutto cambia e tutto peggiora perché nulla muta. E infatti, non c' è parola più abusata di "riforma". L' esempio del sistema scolastico è quanto di più sconfortante: in pochi anni lo abbiamo cambiato e ricambiato e cambiato ancora in ogni ordine e grado eppure pochissimo è cambiato nel sistema di reclutamento o di pulizia morale nei metodi di assegnazione degli incarichi. Il risultato non è una scuola migliore e piu aperta al merito ma una scuola peggiore più esposta ai rischi di classismo; e questo ovviamente non aiuta a formare o consolidare una classe dirigente, politica e sociale che sia. La continua rincorsa a riformare (ogni governo disfacendo quello fatto dal precedente - anche non aveva fatto cose pessime) ha contribuito a destabilizzare più che a consolidare un sistema efficiente e giusto di selezione. Riformare l' involucro senza cambiare l' atteggiamento mentale ed etico degli attori è tra le ragioni quella che più ha contribuito a generare le disfunzioni delle quali ci lamentiamo.

11.11.08

La Repubblica, martedì 11 novembre 2008
Una missione per la politica
di Tito Boeri

Sono in molti in Italia ad avere issato lo spinnaker sperando di gonfiarlo col ponente teso che spira dopo la vittoria di Barack Obama. Ma non basta usare vele con nomi anglosassoni e agitare le bandiere di "chi può" per tornare a essere politicamente competitivi. Il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha di fronte a sé un' agenda obbligata e margini di manovra molto ristretti. Ha vinto con un programma meno radicale di quello di Hillary Clinton. Né si intravedono sin qui quei grandi cambiamenti nelle coalizioni di governo, i cosiddetti "political realignments", che preludono alle grandi svolte nella politica americana. I ripetuti messaggi di continuità con l' amministrazione Bush lanciati nella prima conferenza stampa da presidente degli Stati Uniti in pectore sono indicativi.
Investire sul futuro di Obama è perciò un' impresa ad alto rischio. Molto meglio investire sul passato di Obama, sulla sua incredibile campagna elettorale, fatta di primarie vere, dall' esito spesso imprevedibile perché molto più partecipate che in passato, e di internet, come strumento di comunicazione e di finanziamento. Abbiamo molto da imparare dal candidato Obama nel migliorare i processi di selezione della classe politica all' interno del nostro paese.
Il suo "yes, we can" è soprattutto un riconoscimento alla democrazia di internet, alla sua capacità di moltiplicare il potere delle idee, al di là, se non contro, i grandi mezzi di comunicazione. Ma internet non sarebbe bastato se non ci fossero state regole che permettono una vera competizione all' interno dei partiti, aperta anche a chi sta fuori dall' establishment.
Chi vuole raccogliere la bandiera di Obama deve accettare queste regole, deve permettere una vera competizione nel mercato del lavoro dei politici. Ne abbiamo disperato bisogno. I problemi del nostro paese sono in gran parte problemi di inadeguatezza della nostra classe dirigente, a partire dalla classe politica.
Nel passaggio dalla Prima alla seconda Repubblica il processo di selezione della nostra classe politica è solo peggiorato. Una volta esistevano i partiti di massa che svolgevano al loro interno la selezione. Contavano le decisioni dei vertici, ma anche i militanti potevano dire la loro. Difficile essere candidato senza il gradimento della base, anche in un collegio elettorale sicuro. Poi i partiti di massa si sono sgonfiati, il rapporto fra militanti ed elettori è crollato, e sono rimasti quasi solo i capi partito a selezionare la classe politica. Il loro potere è sopravvissuto alla crisi dei partiti, in alcuni casi si è addirittura rafforzato grazie alla crisi dei partiti, come dimostrano i tanti one-man party che sono fioriti negli ultimi anni.
Cosa ha dato a questi comandanti senza esercito tanto potere? Sicuramente il finanziamento pubblico dei partiti che ha messo ingenti risorse a disposizione delle segreterie. Ma anche regole elettorali, come le liste bloccate, che hanno reso autocratica la selezione dei politici. Come è stato usato tutto questo potere dai segretari dei partiti? Male, molto male, almeno dal nostro punto di vista. Abbiamo avuto parlamentari sempre più vecchi e sempre meno istruiti, come documentano i dati raccolti da un gruppo di ricercatori coordinati da Antonio Merlo dell' Università della Pennsylvania (www.frdb.org). La quota femminile è rimasta più o meno la stessa. Sono, invece, aumentate le cooptazioni all' interno della classe dirigente: la quota di manager tra i nuovi parlamentari, ad esempio, è costantemente cresciuta fino a toccare il record nelle ultime elezioni, con un manager ogni quattro nuovi eletti.
La candidatura di qualcuno dell' establishment rientra spesso in uno scambio di favori. Meglio se il candidato è inesperto e non intende fare carriera in politica. Anche a costo di sguarnire le commissioni parlamentari, è bene tarpare le ali a potenziali concorrenti. Fatto sta che in Italia c' è una fortissima rotazione nei parlamentari: un deputato su tre rimane in carica per un solo mandato, contro, ad esempio, uno su cinque negli Stati Uniti. E' un bene? Niente affatto. La politica è una professione impegnativa, si impara facendo.
Oggi l' Italia è dominata da un gruppo ristretto di politici a vita che danno l' illusione del ricambio permettendo a innocui "volti nuovi" di entrare a Montecitorio o a Palazzo Madama. Non si investe in nuovi parlamentari. Né i nuovi parlamentari investono in una carriera tra gli scranni: semmai il Parlamento diventa un parcheggio, una pausa in cui coltivare reti di relazioni utili per il dopo.
Il tutto avviene, ovviamente, a carico dei contribuenti. Ed è un carico elevato dato che gli stipendi dei parlamentari sono aumentati a tassi da boom economico (+4% l' anno) dal 1980 ad oggi, mentre il Paese entrava progressivamente in una lunga fase di stagnazione. La nostra ben pagata pattuglia al Parlamento Europeo è storicamente quella coi tassi di rotazione più alti dell' Unione: addirittura un parlamentare su tre lascia prima della fine del suo mandato. E' un mestiere complicato quello del parlamentare europeo. Quando si comincia a imparare qualcosa, si sono già fatte le valige, meglio i bauli, del rimpatrio.
I cappellini pro-Barack sono "one size fits most", una taglia va bene per molti, ma non per tutti. Chi vuole metterseli in testa deve accettare di cambiare le regole di selezione della classe politica. Basta col finanziamento pubblico dei partiti. Basta con le liste bloccate. Meno parlamentari e, quei pochi, scelti con cura dalla base dei partiti nell' ambito di primarie vere, il cui esito non è precostituito dalle segreterie. C' è qualcuno lassù disposto a raccogliere questa sfida?

29.10.08

Presentazione di NEWTO: interventi dei relatori

Torino, 15 ottobre 2008: NEWTO viene presentata alle Officine Grandi Riparazioni.
Di seguito, gli interventi dei relatori, in versione integrale.

Clicca QUI per visualizzare in streaming l'intervento di Luca Savarino, Presidente di NEWTO.

Clicca QUI per visualizzare in streaming l'intervento di Sergio Chiamparino, Sindaco della Città di Torino.

Clicca QUI per visualizzare in streaming l'intervento di Piero Gastaldo, Segretario Generale Compagnia di San Paolo.

Clicca QUI per visualizzare in streaming l'intervento di Roger Abravanel, consulente aziendale, autore di "Meritocrazia. 4 proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto".

Clicca QUI per visualizzare in streaming l'intervento di Luca Ricolfi, giornalista.

24.10.08

NEWTO su CAREER TV

E' online su CAREER TV il servizio dedicato a NewTo.
Cliccate qui per vedere il video.

18.10.08

NEWTO su REPUBBLICA / 18 OTTOBRE 2008

Qui di seguito l'articolo di Salvatore Tropea

MA LA CLASSE DIRIGENTE NON È UN CLUB


Il problema realmente esiste e non è nuovo. Ce ne siamo occupati più volte su queste pagine e dunque non ci sorprende di vederlo periodicamente riproposto anche se di volta in volta chi si assume l´iniziativa provvede a introdurre qualche elemento di novità col proposito di rendere inedita una cosa che inedita lo è per niente. Mercoledì sera sotto le volte dei capannoni delle ex officine ferroviarie si è parlato di una classe dirigente per il futuro di Torino da affidare possibilmente ai trentenni. Come dire che per il presente si è già attrezzati senz´altra urgenza che quella di disegnare l´identikit di un giovanotto al quale affidare il nostro destino inteso come futuro della città nella quale dovremo vivere noi e i nostri figli. Se fossimo degli snob come l´intendeva Paul Valéry non oseremmo confessare, pur pensandolo, che questo è un argomento noioso.

Si potrebbe anche far finta di niente, dopotutto dibattito più dibattito meno, discutere non ha mai fatto male a nessuno. Ma ci sono almeno due aspetti del tema in questione che contribuiscono a renderlo poco interessante per non dire appunto noioso e, soprattutto, poco credibile. Il primo, riguarda il momento scelto per parlarne, il secondo, attiene alla reale possibilità di successo: l´uno e l´altro superabili se non ci fossero numerose esperienze del passato a ricordarci che a invocare una classe dirigente giovane e preparata si è provato e riprovato senza alcun risultato se è vero che ancora oggi siamo costretti a ricominciare da zero.
Con l´aria che tira, parlare di classe dirigente sembra quasi un lusso. Il vento di recessione dovrebbe consigliare di rialzarsi prima di pensare a volare, ma poiché è sperabile che la turbolenza debba finire può essere utile prepararsi al dopo. Intanto cercando di farsi subito un´idea dello scenario che sopravviverà perché con quanto sta succedendo è il caso di dire che niente sarà più come prima. La continuità non sembra essere scontata e proprio per questo la classe dirigente dovrà essere in grado di misurarsi con difficoltà sinora mai sperimentate. E per farlo l´attributo della giovane età è sicuramente importante, ma non il solo come si tende a credere. Non si è parte di una classe dirigente moderna ed efficiente per il solo fatto di avere trent´anni.
La regola sovrana è quella del merito che non coincide sempre con un fatto anagrafico. Si può essere più giovani o più anziani ed avere le qualità richieste o non averle mai. Essere classe dirigente non significa rientrare in una fascia di età come i giovani che una volta venivano chiamati al servizio di leva. Ed è bene anche tenere sempre presente che la giovinezza è merce altamente deperibile e non la si può usare per emendarsi di colpe passate quando la si trascurava - stai zitto tu che non hai ancora l´età - o per compiacere le giovani generazioni alle quali si nega un posto di lavoro ma si prospetta un futuro di dirigenti. Non si farebbe altro che perpetuare un inganno del passato.
E´ infatti probabile che il bisogno di gettare le basi per una nuova classe dirigente a Torino discenda da un passato nel quale tutti i tentativi fatti in questa direzione si sono infranti contro un potere industriale e limitatamente finanziario, saldamente controllato da un gruppo imprenditoriale dominante e contro una classe politica che allora come ora era refrattaria al rinnovamento generazionale. I nomi che si sono avvicendati ai posti di comando negli ultimi trent´anni fotografano questa situazione pietrificata e fanno sorgere qualche dubbio sulla reale volontà di voltare pagina. Con ciò alimentando il sospetto che, al di là delle parole e delle intenzioni, la pratica della inamovibilità continui ad essere un serio ostacolo.
Chi volesse poi avere conferma su questa continuità dovrebbe soltanto rileggere le cronache dei giornali che hanno resocontato di come sono stati scelti gli uomini da destinare anche in tempi recenti alle presidenze e ai consigli delle fondazioni bancarie e di enti pubblici e privati. Oppure seguire le guerre intestine che nei partiti vecchi e nuovi si combattono giorno dopo giorno per le candidature al parlamento europeo e italiano e alle assemblee locali. Avrebbe di che restare deluso nel constatare come la meritocrazia oltre che la giovane età continuino ad essere considerati accessori non indispensabili. Altro che nuova classe dirigente.
Ma tant´è, se ne parla anche solo per appurare che alla fine non c´è niente di nuovo sotto il sole. E del resto Sergio Chiamparino, che l´anagrafe condannerebbe a restare fuori dal futuro giovanilistico pur avendo dato prova di essere un ottimo sindaco, avverte il pericolo e ammonisce contro l´illusione di pensare che sia possibile «creare una situazione asettica con una selezione scientifica della classe dirigente senza che entri in gioco la soggettività di ciascuno». Senza cioè mettere in conto che una parentela, un´amicizia, una conoscenza possono anche influenzare una scelta. Che non è il male peggiore a meno che non ci si illuda che al club della nuova classe dirigente si acceda perché trentenni o che chi detiene il potere sia pronto a cederlo ai giovani della «New To». Un prodigio che può materializzarsi soltanto in una sera d´autunno sotto i capannoni delle ex Ogr.

NEWTO su LA STAMPA / 18 OTTOBRE 2008




Ancora un articolo dedicato a Newto, questa volta a firma di Carlo Callieri.


NEWTO su LA STAMPA / 17 ottobre 2008

Qui di seguito l'articolo firmato da Luigi La Spina.

COME NASCE UNA CLASSE DIRIGENTE

La presentazione di “NewTo”, il gruppo di trentenni interessato alla cosa pubblica, alla promozione della meritocrazia e allo sviluppo di una nuova classe dirigente, ha attirato molta giustificata curiosità e qualche fraintendimento. Gli equivoci non meritano troppe parole, perchè si fondano sui soliti, abbastanza meschini, sospetti di autopromozione personale. Più interessanti, invece, sono gli spunti di dibattito che l’iniziativa ha suscitato: i motivi della gerontocrazia imperante, anche nella nostra città, la dequalificazione dell’università nell’era della scuola di massa, la persistente difficoltà delle donne a sopportare i prezzi di drammatiche scelte di vita e molti altri. La particolarità della discussione, in quella sede, però, non derivava dagli argomenti, ma dalla necessità, avvertita da tutti gli organizzatori, di “inventare” luoghi di incontro, percorsi di comunicazione, utili a selezionare giovani che vogliano partecipare alla crescita del territorio in cui vivono e lavorano.

La selezione delle vocazioni e della capacità, una volta, trovava nei partiti, nei sindacati, nelle scuole, nelle università, ma anche nelle fabbriche e negli uffici. Ecco perchè colpiva quella sensazione di solitudine, ma anche di spaesamento, che potrebbe essere comprensibile in un gruppo di anziani, ma che sembrava innaturale tra giovani, per di più del tutto attrezzati, culturalmente ed economicamente, ad affrontare, con una certa sicurezza, il loro futuro.
A una riflessione più meditata, quella atmosfera, che si potrebbe definire più con le categorie della psicologia che con quelle della sociologia, sembra rivelare una consapevolezza, ma anche suscitare un allarme. Significa che è ormai diffusa la sensazione di un irreversibile sgretolamento di quella alleanza tra parte della società civile cittadina e parte di quella politica che, negli ultimi quindici anni, si è assunta la responsabilità di guidare il superamento della crisi di un vecchio modello economico-sociale. Se non vogliamo aver paura delle parole, lo si può anche definire “gruppo di potere”. Una vera classe dirigente lo è sempre. Solo gli ipocriti non riconoscono che il problema è l’uso, buono o cattivo, che si fa del potere ai fini degli interessi collettivi. Questo fenomeno è del tutto fisiologico e, persino, auspicabile. L’allarme deriva solo dalla constatazione che non sembrano affiorare, in città, altri gruppi dirigenti, dotati non solo di una età meno matura, ma di solide visioni alternative, di generosa disponibilità a spendere parte del proprio tempo e dei propri talenti per il bene pubblico, di seria preparazione professionale. Tali da essere pronti per raccogliere il testimone senza il rischio di lasciarlo cadere per terra.

16.10.08

NEWTO su REPUBBLICA / 16 ottobre 2008


L'articolo pubblicato su Repubblica del 16 ottobre 2008, firmato da Paolo Griseri.

NEWTO / Intervista a LUCA SAVARINO


Cliccate qui per visualizzare la videointervista al presidente di Newto, Luca Savarino.

NEWTO su LA STAMPA / 16 ottobre 2008


L'articolo pubblicato su La Stampa del 16 ottobre 2008, firmato da Andrea Rossi.

15.10.08

PRESENTAZIONE NEWTO/15 OTTOBRE 2008


Il 15 ottobre 2008, alle 18, alle Officine Grandi Riparazioni, in Corso Castelfidardo 18, a Torino, verrà presentata l'associazione Newto. Newto è un progetto che ha preso forma grazie al contributo della Compagnia di Sanpaolo. Si tratta di un'associazione che intende contribuire a formare una nuova classe dirigente per il Piemonte, proponendo una serie di incontri sui grandi temi contemporanei ai quali potrà partecipare un gruppo selezionato di giovani (espressione con cui identifichiamo persone tra i 25 e i 38 anni).
L'associazione sarà anche a disposizione di tutti coloro che - pur fuori età e pur essendo già classe dirigente nel vero e proprio senso del termine - vorranno proporre idee e pensieri da condividere in forme che verranno stabilite nel tempo. Newto sarà soprattutto un netwok, costruito non sulla base di appartenenze ma di una comune responsabilità nei confronti della sfera pubblica.
Altro verrà raccontato mercoledì 15 ottobre, quando a parlare di classe dirigente e del senso di questo impegno saranno il segretario generale della Compagnia di Sanpaolo, Piero Gastaldo, il sindaco di torino Sergio Chiamparino, Luca Ricolfi e Giorgio Abravanel, oltre al presidente di Newto, Luca Savarino.