Pochi, lenti e in ritardo i tre handicap dei giovani
di Massimo Livi Bacci
Pochi, lenti e tardi: in tre parole si potrebbe sintetizzare la sorte dei giovani italiani in questa prima parte del secolo. Pochi, per la parsimonia riproduttiva dei loro genitori; oggi toccano i vent' anni 600.000 ragazze e ragazzi, ma nel 1990 erano 900.000. Lenti: perché lenta è la transizione verso lo stato adulto e l' autonomia economica; più lenta rispetto sia alle generazioni precedenti sia agli altri paesi europei, inclusi quelli mediterranei culturalmente più vicini. Tardi, perché tardivo è l' approdo a quelle attività, carriere o professioni che «contano» o che, più modestamente, hanno una qualche incidenza nella vita economica, sociale e di relazione. Questa triade definitoria non è frutto di osservazioni superficiali, ma si basa su fatti e dati precisi che non lasciano adito a dubbi e dei quali è opportuno dare qualche saggio. Sul «pochi» si è detto, c' è solo da aggiungere che i giovani diventeranno meno numerosi nei prossimi anni, nonostante il soccorso degli immigrati. Sul «lenti» esiste una vastissima documentazione che prova come per percorrere le tappe per raggiungere l' autonomia adulta - formazione e studio, indipendenza abitativa, lavoro e reddito, unione e scelte riproduttive - ci voglia assai più tempo che in passato. L' intero ciclo universitario (il 3+2) viene terminato verso i 27 anni, diversi anni in più rispetto ad altri paesi europei; i tassi di attività tra i 20 e i 30 anni sono fortemente diminuiti nell' ultimo ventennio - a riprova che si entra nel mondo del lavoro sempre più tardi - e si è allargato il divario con i maggiori paesi; vent' anni fa tre giovani (donne e uomini) ogni dieci vivevano con i genitori, contro sei su dieci oggi; l' età media delle madri alla nascita di un figlio sfiora 31 anni, tre o quattro anni in più rispetto alla generazione precedente.
Il «tardi» è, naturalmente, la conseguenza del «lenti»: è la causa diretta del fatto che i giovani «che contano» si siano rarefatti assai più di quanto non sarebbe giustificato dal loro calo numerico. Qualche prova? C' è ampia scelta: si accede alle professioni più tardi, e un avvocato trentenne è per lo più senza reddito, mentre il suo omologo inglese o francese può sostenerci modestamente una famiglia; si vince il concorso in magistratura (una vera e propria élite) a 31 anni contro 28 verso il 1980; così è per i nuovi notai, anch' essi assai più vecchi che in passato. Nell' università si è detto e ridetto: il peso dei docenti giovani (con meno di 35 anni) si è dimezzato tra il 1985 e oggi, e non diversa è la situazione negli istituti di ricerca pubblici. Ma anche gli animal spirits imprenditoriali sono invecchiati: secondo la Cerved, tra le nuove imprese individuali, l' incidenza di quelle guidate da giovani si è ridotta dal 54 al 41 per cento tra il 2000 e il 2007, e la riduzione sarebbe stata assai più netta se non fosse stata frenata dalla forte crescita di giovani imprenditori stranieri. In politica, l' astensionismo elettorale dei giovani tra i 20 e i 25 anni è raddoppiato tra il 1994 e il 2006 e i giovani che hanno peso nelle gerarchie vanno cercati col lanternino.
Aggiungiamo anche che il corpo sociale - che è molto più malleabile delle istituzioni - ha generato i suoi anticorpi e i suoi anestetici oppiacei, ad evitare che la perdita di prerogative da parte dei giovani risultasse troppo dolorosa. Così è per il lungo parcheggio nell' università, considerato normale da famiglie e istituzioni; così è per le lunghe relazioni che precedono una unione e l' assunzione di responsabilità; così è per la lunga permanenza nella casa dei genitori; così è per lo scarso reddito da lavoro dei giovani. E anche il linguaggio si adatta: nel nostro ordinamento si può essere apprendisti (il ragazzo di bottega di un tempo...) fino a trent' anni; appartenere ai «giovani» industriali (generalmente figli di imprenditori) fino a 40; essere considerati troppo giovani per accedere ad una élite accademica a 50. Chiamiamo ragazza o ragazzo anche chi si è bene assestato nella mezza età.
I rimedi non possono essere affidati a «politiche giovanili» di marginale cosmetica. E' il funzionamento dell' intera società - quello che può essere modificato dalle politiche - che deve essere rivisto. La formazione deve essere più intensa e cadenzata, responsabilizzando giovani e famiglie; gli istituti contrattuali debbono adattarsi per consentire l' accesso al lavoro dei più giovani; le esperienze internazionali debbono moltiplicarsi (ben venga un Erasmus universale); l' autonomia di vita deve essere favorita (politica edilizia dell' affitto, delle residenze studentesche); l' imprenditorialità e l' inventiva vanno sostenute. Si tratta di politiche impegnative e costose - ma con ritorni assai cospicui: se i giovani in Italia fossero presenti al lavoro come altrove in Europa, avremmo tra 1 e 2 milioni di occupati in più (e un Pil del 4-8% più alto).
Poca fiducia avrei nelle «quote giovani». Le «quote» sono forse giustificabili quando il normale funzionamento della società non sia capace di superare storici ritardi e qualora una sferzata possa provocare uno choc risolutivo. Nel caso delle donne in politica si può argomentare che dopo sessant' anni di suffragio universale e di vita democratica, la loro presenza in Parlamento è ancora scarsissima e che l' attività legislativa ha tutto da guadagnare dalla loro equilibrata partecipazione. Nel caso dei giovani, però, è certo che la restituzione delle prerogative perdute e di un adeguato spazio di azione potrebbe avvenire con le normali e per nulla eccezionali politiche che sono alla portata di qualsiasi governo che le voglia intraprendere.
Il «tardi» è, naturalmente, la conseguenza del «lenti»: è la causa diretta del fatto che i giovani «che contano» si siano rarefatti assai più di quanto non sarebbe giustificato dal loro calo numerico. Qualche prova? C' è ampia scelta: si accede alle professioni più tardi, e un avvocato trentenne è per lo più senza reddito, mentre il suo omologo inglese o francese può sostenerci modestamente una famiglia; si vince il concorso in magistratura (una vera e propria élite) a 31 anni contro 28 verso il 1980; così è per i nuovi notai, anch' essi assai più vecchi che in passato. Nell' università si è detto e ridetto: il peso dei docenti giovani (con meno di 35 anni) si è dimezzato tra il 1985 e oggi, e non diversa è la situazione negli istituti di ricerca pubblici. Ma anche gli animal spirits imprenditoriali sono invecchiati: secondo la Cerved, tra le nuove imprese individuali, l' incidenza di quelle guidate da giovani si è ridotta dal 54 al 41 per cento tra il 2000 e il 2007, e la riduzione sarebbe stata assai più netta se non fosse stata frenata dalla forte crescita di giovani imprenditori stranieri. In politica, l' astensionismo elettorale dei giovani tra i 20 e i 25 anni è raddoppiato tra il 1994 e il 2006 e i giovani che hanno peso nelle gerarchie vanno cercati col lanternino.
Aggiungiamo anche che il corpo sociale - che è molto più malleabile delle istituzioni - ha generato i suoi anticorpi e i suoi anestetici oppiacei, ad evitare che la perdita di prerogative da parte dei giovani risultasse troppo dolorosa. Così è per il lungo parcheggio nell' università, considerato normale da famiglie e istituzioni; così è per le lunghe relazioni che precedono una unione e l' assunzione di responsabilità; così è per la lunga permanenza nella casa dei genitori; così è per lo scarso reddito da lavoro dei giovani. E anche il linguaggio si adatta: nel nostro ordinamento si può essere apprendisti (il ragazzo di bottega di un tempo...) fino a trent' anni; appartenere ai «giovani» industriali (generalmente figli di imprenditori) fino a 40; essere considerati troppo giovani per accedere ad una élite accademica a 50. Chiamiamo ragazza o ragazzo anche chi si è bene assestato nella mezza età.
I rimedi non possono essere affidati a «politiche giovanili» di marginale cosmetica. E' il funzionamento dell' intera società - quello che può essere modificato dalle politiche - che deve essere rivisto. La formazione deve essere più intensa e cadenzata, responsabilizzando giovani e famiglie; gli istituti contrattuali debbono adattarsi per consentire l' accesso al lavoro dei più giovani; le esperienze internazionali debbono moltiplicarsi (ben venga un Erasmus universale); l' autonomia di vita deve essere favorita (politica edilizia dell' affitto, delle residenze studentesche); l' imprenditorialità e l' inventiva vanno sostenute. Si tratta di politiche impegnative e costose - ma con ritorni assai cospicui: se i giovani in Italia fossero presenti al lavoro come altrove in Europa, avremmo tra 1 e 2 milioni di occupati in più (e un Pil del 4-8% più alto).
Poca fiducia avrei nelle «quote giovani». Le «quote» sono forse giustificabili quando il normale funzionamento della società non sia capace di superare storici ritardi e qualora una sferzata possa provocare uno choc risolutivo. Nel caso delle donne in politica si può argomentare che dopo sessant' anni di suffragio universale e di vita democratica, la loro presenza in Parlamento è ancora scarsissima e che l' attività legislativa ha tutto da guadagnare dalla loro equilibrata partecipazione. Nel caso dei giovani, però, è certo che la restituzione delle prerogative perdute e di un adeguato spazio di azione potrebbe avvenire con le normali e per nulla eccezionali politiche che sono alla portata di qualsiasi governo che le voglia intraprendere.
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